CULTURE

Fiorenzo Zeni, “il” sassofonista della regione
Trentino di nascita ma da tempo bolzanino, è noto anche a livello nazionale

06 fiorenzo

Trentino di nascita ma ormai da tempo bolzanino Fiorenzo Zeni (www.fiorenzozeni.com) si è affrancato nei decenni, tra i jazzisti e non solo, come “il” sassofonista della nostra regione.

Aperto, gentile e benvoluto da tutta la scena, Fiorenzo Zeni fa la sua apparizione nel 1989 all’interno dello storico Collettivo Musicale Meranese, come uno dei nuovi innesti del gruppo che tuttavia non riuscirono a scongiurarne di lì a poco lo scioglimento. Questo mese di aprile, oltre a un’apparizione il 30 all’International Jazz Day di Trento con la Bomporti Jazz Orchestra del Conservatorio locale, sarà alle Terme di Merano il 13 con il Gary Quartet (composto anche da Luise Lutt, Michele Giro e Nicky Debertoldi) e il 26 suonerà con la Ziganoff Jazzmer Band nella prestigiosa cornice del Laurin Bar di Bolzano.

Jazzista che inizia a farsi conoscere nel panorama italiano eppure abbastanza onnivoro da potersi considerare il sax dei cantautori locali: è una definizione soddisfacente? Si riesce a vivere di sax?
Ho fatto cose con Stefano Mascheroni su due dischi, con Bobby Gualtirolo e altri per collaborazioni pop e dintorni, ma principalmente suono jazz. Ho la fortuna di potermi dedicare alla musica a tempo pieno, visto che vivo di altro. Tanti miei colleghi meno fortunati, diciamo il 95% dei musicisti che conosco, affiancano all’attività in generi musicali difficili quella d’insegnante di musica come lavoro principale.

Sulla scena internazionale quali sono i sassofonisti cui ti sei maggiormente ispirato?
Tra i viventi dico Chris Potter senza ombra di dubbio e poi apprezzo anche il canadese, inglese di nascita, Seamus Blake oppure il californiano Donny McCaslin che ha suonato in Blackstar di David Bowie e qualche anno fa passò anche per il Dolomiti Ski Jazz, il festival della Val di Fiemme, con un concerto al teatro di Tesero che è il mio paese d’origine. Fra chi è nel frattempo mancato, invece, dico il grande Michael Brecker.

Joe Lovano?
Non è che sia tra i miei preferiti, però c’è da dire che ha un linguaggio musicale tutto suo, molto originale, che adoro a livello di scrittura e di studio, quindi tanto di cappello anche a lui.

Facciamo un po’ di fantajazz: accanto a te e potendo pescare in tutto il mondo, quale sarebbe il quartetto o quintetto stellare per esibirti?
Dunque, il giochetto ci riesce solo con musicisti viventi, con i quali sarebbe ancora possibile riuscirci mentre con i defunti la vedo difficile… (ride). Dei più lirici tra i pianisti vorrei Brad Mehldau ma per il suo modo di suonare hard bop mi piacerebbe Dave Kikoski. Al basso, visto che è ancora tra noi, dovendo puntare in alto metterei Ron Carter. Alla batteria, muovendomi in ambito mainstream chiamerei Bill Stewart, il batterista di John Scofield che, a quel punto, ingaggerei del pari per suonare la chitarra.

Con i nomi più nuovi, al di là dunque di questi “mostri sacri” da te nominati, che rapporto hai? Le ibridazioni di cui molti si rendono protagonisti stanno innovando realmente il jazz?
Apprezzo molto Snarky Puppy che ritengo fare una sorta di musica contemporanea, di funky futuribile. Ci sono brave sassofoniste come Melissa Aldana, una cilena che vive a New York, o la londinese Nubya Garcia, che però esula molto dal mio ambito d’azione. Tra gli italiani mi piacciono Luigi Grasso, Rosario Giuliani, Stefano Di Battista, Max Ionata.

La scena jazzistica locale ti pare sufficientemente di livello?
Ci sono giovani bravi, certamente in area trentina, mentre a Bolzano, pur difficile da incontrare perché sempre via, cito Andreas Marinello che a Zagabria è diventato direttore della big band della radio nazionale croata (ndr: attualmente insegna alla National University of Singapore).

Con Francesca Bertazzo e Michele Francesconi anche tu sei sembrato perfettamente a tuo agio in un’ampia big band che si muoveva tra le composizioni di Jimmy Van Heusen…
Una dimensione che mi piace e quello è un progetto bellissimo, ma il problema delle formazioni sopra i quattro o cinque elementi è che sono considerate di scarso appeal dai gestori dei locali, così come dagli organizzatori di festival, in quanto sforano il budget medio dei club o di altre kermesse. Se non sei un Fabrizio Bosso si fa molta fatica a entrare in quel circuito, proprio per questioni economiche.

A cosa stai lavorando oggi?
Porto avanti il mio progetto sulla storia del sassofono con un quintetto, da Sydney Bechet a Joshua Redman dunque dagli Anni Venti ai tempi moderni, passando per tutti quelli che hanno fatto la storia del sax all’interno del jazz, tenoristi come Lester Young e Ben Webster, Charlie Parker, Lee Konitz, Paul Desmond o Jerry Mulligan, che con sintetiche spiegazioni inquadriamo all’interno del periodo in cui suonavano e dell’apporto che hanno offerto al genere per una sorta d’infarinatura che il pubblico ha dato segno di gradire molto. Vorrei trasporre su disco questo progetto in cui adopero tutti e quattro i tipi di sax e anche integrare con due o tre nuove composizioni originali le sette che ho già scritto per un’altra idea di cd che ruoterà intorno al concetto di crossword, le parole crociate.

[Daniele Barina]

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