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CULTURE

Südtirock: suoni ribelli in un docufilm
Andreetto-Ferrari esplorano le tensioni di una terra con gli occhi della musica

05 La rinascita della musica sudicia

Serial killer in città, eroinomani in piazza, scontri etnico-linguistici e terrorismo: non è un thriller d’oltreoceano, ma la recente storia dell’Alto Adige.

“Südtirock - Suoni di confine”, docufilm di Jadel Andreetto e Armin Ferrari, esplora 15 anni di storia sudtirolese attraverso la lente della scena musicale locale degli anni ‘80 e ‘90. Un ritratto inedito di una terra all’apparenza idilliaca, ma che cela una realtà ben più complessa e turbolenta.

Armin e Jadel, come nasce la vostra collaborazione?
A: Nasce dal mio precedente documentario A noi rimane il mondo, centrato sulla poetica del collettivo Wu Ming e sui cantieri culturali ad essa legati, come Resistenze in Cirenaica, ideato da Jadel a Bologna. Scoprimmo di essere entrambi di Bolzano e, diventati amici, mi propose il titolo Südtirock.
J: Da tempo mi ronzava questa parola in testa. Volevo raccontare la Bolzano degli anni ‘80 e ‘90, legata alla sua scena musicale estrema. Südtirock evocava perfettamente questa realtà e Armin ha subito colto l’idea.

Ma non si parla solo di musica...
A: Il film affronta le tensioni etniche e sociali del Sudtirolo attraverso la musica hardcore, punk e heavy metal di quegli anni. Con interviste a storici, giornalisti, musicisti e materiali d’archivio delle teche Rai e provinciali, oltre a vecchie VHS di splendidi concerti, riveliamo un Sudtirolo ben diverso dall’immagine pacata e stabile che molti hanno.
J: Volevamo mostrare come la violenza e le tensioni dell’epoca influenzassero la scena musicale. La musica diventava una valvola di sfogo e salvezza per molti giovani. Nonostante l’ambiente ostile, le band creavano qualcosa di positivo e artistico, superando divisioni etniche e sociali.

Nelle vostre interviste c’è un filo conduttore fra le risposte ricevute?
A: Le reazioni sono state varie, forse una risposta univoca non esiste. Di certo abbiamo portato gli intervistati a riflettere, magari per la prima volta, sul perché ci fosse bisogno di esprimersi con suoni forti e pesanti. Un’autoanalisi possibile solo a posteriori: nel momento in cui vivi un periodo, non ti rendi conto del contributo che stai dando.
J: Intervistando musicisti, storici e giornalisti, abbiamo raccolto varie prospettive dello stesso contesto. È emerso che la scena musicale, spesso demonizzata se accostata a certi generi, era la parte più sana della società altoatesina. Anticipava i tempi con inclusività e ribellione contro le convenzioni.

Come differisce la scena musicale odierna e cosa ci lascia quella raccontata nel film?
A: Prima la musica era una necessità personale, suonata per divertimento e in modo spontaneo. Ora il focus è sull’apparire e sui riconoscimenti. Si crea per il risultato, con continui giudizi sui social. Si vive l’arte con ansia, anziché con leggerezza.
J: La controcultura di allora ha dimostrato che si può convivere e collaborare, anche tra tensioni. Le band, spesso miste tra italiani e tedeschi, parlavano la lingua della musica. Un esempio di integrazione che, con le dovute proporzioni, può essere esteso a ogni contesto globale: la convivenza è possibile, anche tra le bombe.

Dopo il debutto al Biografilm Festival di Bologna, ci saranno altre iniziative?
A: Südtirock è disponibile sulla Mediateca di RAI Alto Adige e in autunno vorremmo realizzare un tour in regione, con possibilità di estendere la visione anche all’estero.
J: Abbiamo condensato in un’ora di film oltre 30 ore di interviste, filmati e concerti, omettendo molte storie di valore. Sarebbe bello creare un archivio di tutto il materiale non pubblicato.

Concludo proprio come inizia il film: cos’è il Sudtirolo?
A: Una terra interessante con grande potenziale, non del tutto espresso, talvolta limitato da una visione un po’ retrograda delle istituzioni.
J: Uso una citazione: il passato è una terra straniera.

[Fabian Daum]

Bolzanino trasferitosi a Bologna, Jadel Andreetto ha scritto romanzi, saggi e racconti tra cui una serie noir con Guglielmo Pispisa ambientata a Bolzano (Tutta quella brava gente e La parola amore uccide). Vanta esperienze come writer in residence al MIT di Boston e per testate giornalistiche locali e nazionali. Negli anni ‘90 suona in varie band e dal 2015 torna ad esibirsi con Wu Ming 1 nel progetto musico-letterario Bhutan Clan. Suo è il podcast Morte di un giallista bolzanino (2022).

Armin Ferrari vive e lavora in provincia di Bolzano ed è attivo da oltre 15 anni nel campo delle produzioni video. Collabora con enti teatrali, culturali, musicali e museali, per i quali cura la comunicazione visiva. Nel 2022 realizza il suo primo lungometraggio A noi rimane il mondo e ora lavora a un documentario per celebrare i 40 anni di Bolzano Danza.

 

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