L’evoluzione della musica popolare
Alla scoperta degli Opas Diandl, un quintetto transnazionale ormai affermato
Gli Opas Diandl sono forse la realtà musicale più interessante che la nostra terra abbia prodotto negli ultimi quindici anni, un quintetto transnazionale molto genericamente riconducibile a quell’evoluzione della musica popolare che in Europa è in atto da ancor più tempo.
Quattro cd all’attivo e un quinto in cantiere, per Veronika Egger, voce, violino e viola da gamba, Matthias Härtel, voce, contrabasso e nyckelharpa, Jan Langer, percussioni, Thomas Lamprecht, voce e chitarra, Markus Prieth, voce, viola, raffele e banjo, è ormai tempo di fare un bilancio del 2023 prima della pausa invernale, cosa che facciamo con quest’ultimo.
Markus Prieth, com’è andato lo Strömen Tour 23? Che tipo di pubblico viene ai vostri concerti?
È andato come avevamo pianificato, nel senso che come Opas Diandl ci siamo dati il limite dei 25 concerti l’anno, non di più, non di meno. L’obiettivo è stato raggiunto: abbiamo suonato in Austria, Germania, Svizzera e persino in Alto Adige, dove le occasioni per farlo sono poche perché siamo un piccolo paese e invece questa volta ci sono capitate sei o sette date. Quanto al pubblico ho sempre visto gente soddisfatta, evidentemente venuta per trascorrere insieme un’ora piacevole. Certo poi dipende anche dalla location in cui ci si esibiamo o da chi organizza che magari ha già il suo pubblico, qui normalmente della nostra età (ndr: dai quaranta in su), all’estero cinquanta o sessanta e più anni anche in ragione di quanto significa la Volksmusik a quelle latitudini, faccenda questa che onestamente mi annoia.
Il “Diandl” cui si riferisce il vostro nome è un costume anche maschile o il nonno si vestiva da donna?
La domanda coglie il concetto base che anima il gruppo, nel senso che non c’è mai premeditazione: per il primo concerto ci hanno chiesto di trovarci un nome e, tra una facezia e l’altra, è uscito Opas Diandl. Al di là della scelta iniziale, però, che si pensi a questa possibile accezione del nostro nome a me piace tantissimo, come anche che sia riferibile alla generazione o alle generazioni, al tempo in cui la musica popolare era sempre abbinata all’immagine del tirolese felice.
La vostra rivisitazione della tradizione vi fa sentire rivoluzionari rispetto al cliché della Volksmusik?
Devo dire di no e nemmeno c’interessa esserlo, non lo dico con cattiveria ma con tutto l’amore. Io amo la musica tradizionale, è il mio background, ma il ruolo di catalizzatore sociale è sempre stato immanente nella musica popolare, è una dimensione funzionale che a me piace ancora di più e prescinde dalla musica stessa. Con il tempo, le guerre, l’autonomia e il nostro sviluppo storico, ci siamo buttati o dovuti buttare sulla musica come parte irrinunciabile della nostra identità e ne abbiamo pieni gli archivi, una cosa che mi fa piacere: ma avere poi provato a definire noi stessi e a riassumere il tutto esclusivamente alla luce delle note è una cosa senza senso. Opas Diandl, a parte un paio di melodie, nulla ha a che fare con la Volksmusik: noi siamo sul palco e facciamo concerti, siamo una Konzertband.
Musicalmente mi pare d’intuire un certo legame con la tradizione celtica e del Grande Nord, per non dire del folk inglese...
Spesso ce lo dicono ma teniamo anche presente che Tom e Jan, il nostro chitarrista e il percussionista, oltre a tanti anni con il folk inglese hanno fatto ancora più esperienza con quello del Sud, con la taranta che spesso fa capolino con il suo tatachetatum tatachetatum sotto al violino di Veronika che, invece, a volte ci fa pensare di essere troppo sbilanciati verso l’Irlanda, con cui non abbiamo niente a che fare. Anche qui da noi il violino è molto diffuso ma i giovani raramente hanno modo di poterlo suonare dopo la maggiore età in ambito popolare perché l’impiego di archi è oggi molto raro, benché non lo fosse in passato fino all’arrivo di quello che Renato Morelli (ndr: etnomusicologo, regista e musicista trentino) definisce lo strumento killer che li ha fatti sparire: la fisarmonica, che sa fare tutto e che, tra l’altro, ha tolto il bisogno di avere cinque persone che facevano il suo lavoro.
Nella vostra musica si avverte forte il riferimento agli elementi primordiali della Terra: non è che, vista la situazione in cui versa l’ambiente, questo finisce involontariamente per essere un messaggio politico?
(ride) La domanda è bella ma, ancora una volta, ci fa riflettere sul nostro non essere concettuali, non esprimendo alcuna posizione politica, pur consci che l’arte implichi sempre un gesto politico. Suonando a contorno di qualche manifestazione impegnata ci hanno detto che la musica popolare in Alto Adige è sempre imperniata su chi e che cosa rappresenti questo territorio, ma noi siamo contenti di esserne fuori, di non doverci definire a tutti i costi la voce guida maschile di quel gruppo.
[Daniele Barina]