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CULTURE

Belinda Kazeem-Kamiński a Merano Arte
L’artista austriaca affronta il tema della deportazione dei bambini africani

01 teatro primaverile

Fino al 9 giugno la Kunsthaus di Merano ospita “Aerolectis”, prima personale italiana di Belinda Kazeem-Kamiński, artista austriaca che per l’istituzione meranese ha rivolto il suo lavoro di ricerca e artistico ad un fenomeno pressoché sconosciuto, ovvero la deportazione dall’Africa di centinaia di bambine che, a metà del XIX secolo, diventarono loro malgrado strumento per la colonizzazione delle terre di provenienza.

La mostra è il secondo atto di una programmazione che, attraverso tre anni di mostre collettive e personali, si pone l’obiettivo di ribaltare la prospettiva eurocentrica della narrazione di Africa, Abya Ayala (il Sudamerica secondo la denominazione dei nativi americani) e Asia. Incontriamo Simone Frangi e Lucrezia Cippitelli per essere introdotti ad una mostra che si svela al pubblico in tutta la sua forza umana e solidità d’indagine.

Quale tassello aggiunge Aerolectics al percorso iniziato l’anno scorso?
Volevamo dimostrare come fosse difficile raccontare l’Europa in maniera netta, per questo cerchiamo storie “piccole”, particolari, che ci permettano di attuare meccanismi di decostruzione e ripensamento dell’identità del nostro continente. In questo verso, il lavoro di Belinda indaga lo spazio intoccabile delle relazioni con il continente africano intessute dalla Chiesa Cattolica e il suo operato apparentemente immune alle critiche perché orientato a “salvare le povere popolazioni africane”. La realtà dei fatti, però, ci mostra come la chiesa abbia sostenuto e accompagnato il processo di colonizzazione, influenzando le popolazioni locali e precedendo le truppe militari.

Qual è la storia che fa da spunto alla mostra?
È la storia che ha come protagoniste Gambra*, Schiama* e Asue*, tre bambine comprate e trasportate a forza a Brunico nel 1855 dal sacerdote Niccolò Olivieri. Una vicenda analoga a quella di centinaia di altre portate nei monasteri e nelle istituzioni cattoliche dell’Europa germanofona al di qua e al di là delle Alpi con l’obiettivo di “salvarle” ed educarle e poi, diventate delle brave cattoliche, di riportarle al paese di provenienza per impiegarle come strumento di colonizzazione.

Alla luce di Aerolectics, di quali interpretazioni si arricchisce il tema della linea insubrica che ha dato il titolo alla precedente mostra collettiva?
L’artista ha utilizzato questo concetto geologico (che indica la linea d’incontro tra le piattaforme continentali europea ed africana) per indagare il territorio altoatesino, riconoscendone la non immobilità, la presenza di continue frizioni e conflitti. Fenomeni dolorosi che hanno interessato anche le bambine condotte in un contesto completamente bianco, cattolico e informato alla mentalità e alla cultura Europea che era loro completamente estraneo. A questo aspetto si collega poi una riflessione sulla visibilità e invisibilità di Gambra*, Schiama* e Asue* e tutte le altre con un destino analogo, che suscitavano curiosità come degli animali esotici, dovevano essere protette nei conventi, ma che in queste strutture venivano educate separatamente. È chiaro come questo tema possa offrire delle analogie rispetto a quello della convivenza e della separazione. Inoltre, sorge spontanea una riflessione sulla questione relativa agli archivi e su come essi raccontino una storia che è quella della parte dominante. Non è che manchi materiale su queste vicende, ma esso risulta completamente occultato dai “sedimenti della storia”.

Guardando al lavoro di Kazeem-Kamiński e al programma dei prossimi due anni, pare si delinei uno “strumentario astratto” che prescinde dallo specifico. È così?
Fin dall’inizio abbiamo avuto chiaro il desiderio di portare in questo territorio delle sfide globali. Il filo che unisce il nostro programma è “l’invenzione dell’Europa”. Spesso quando si parla di colonialismo si tende a puntare l’obiettivo sulle vite degli altri e molto poco si guarda alle origini di questo fenomeno, che risiedono in Europa e che hanno visto in contesti diversi l’applicazione di modalità operative sostanzialmente simili. A noi interessa capire lo sguardo bianco europeo e non di sezionare in modo pornografico le vite degli altri. Da un punto di vista pratico stiamo lavorando per imparare a creare mostre in maniera diversa, partendo da un lavoro di ricerca estremamente dettagliato: non per creare mostre fortemente documentarie, ma che siano in grado di svelare una prospettiva non soltanto razionale ma anche ancestrale. La mostra di Belinda Kazeem-Kamiński si propone come uno spazio di vendetta, un luogo rituale, che smuove le emozioni e invita la popolazione bianca a prendersi delle responsabilità. Vogliamo che la gente torni a casa sentendosi coinvolta da queste questioni, perché ci riguardano inevitabilmente.

L’approccio si mostra dunque multidisciplinare.
Noi non siamo storici e non lo sono le artiste e gli artisti coinvolti. Lavoriamo in uno spazio collaborativo che si chiama ricerca artistica, il nostro ruolo è dissodamento del territorio e accompagnamento degli artisti, ciò che ci interessa è parlare a qualcuno, con qualcuno e per qualcuno rispetto a temi specifici. A differenza delle scienze esatte, il nostro lavoro non decide a priori che cosa vuole trovare; per noi conta lo sguardo, il posizionamento etico che noi e gli artisti scegliamo. A partire da questo, le ricerche prendono strade imprevedibili, svelano storie inattese e suscitano nel territorio dubbi, riflessioni e posizionamenti. Questo, in un paese che si sta nuovamente fossilizzando, che costruisce barriere ed educa alla paura, è fondamentale.

[Mauro Sperandio]

 

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