L’irrequieto prog rock dei Laeds
La band di Bressanone suonerà il 17 gennaio al Sudwerk di Bolzano
Formatisi a Bressanone nel 2013, i Laeds sentono di appartenere alla sterminata famiglia dei gruppi musicali d’ambito prog rock, una categoria che non contempla di rispettare un canone musicale ben preciso ma che non transige sulla teoretica che, come si narra già alla fine degli anni ’60 con l’uscita di A whiter shade of pale dei Procol Harum, ne giustificò la nascita.
Una maggiore complessità stilistica e ritmica rispetto al rock delle origini, un chiaro tributo alle musiche colte e una narrazione molto incline al fantastico seppur non scevra di tematiche sociali, sono gli archetipi di genere che hanno ispirato i tre fratelli Colombi (Emanuele, Damiano e Lorenzo) nella ricerca di una propria originalità, certificata da tre album alle spalle, tanti video professionali caricati sulle piattaforme, tanti live set, il più atteso dei quali è quello con cui apriranno l’anno nuovo il 17 gennaio al Sudwerk di Bolzano. Ne parliamo con Emanuele Colombi, compositore, chitarrista e cantante della band.
Chiariamo l’arcano del nome Laeds che vi siete scelti, e che se scritto bene ha il vantaggio di portare solo a voi come risultato sui motori di ricerca...
Infatti, il nome non ha un senso compiuto e corrispondeva alle iniziali dei membri originali del gruppo che poi sono in parte cambiati, così come le situazioni. In realtà ci chiamavamo Lads, cioè i “ragazzi”, ma poi abbiamo visto che il nome era già preso da diverse altre band e quindi anche la ricerca in Internet sarebbe stata un po’ compromessa, così abbiamo aggiunto una vocale. Un po’ in stile prog pensammo, vista la propensione di quei gruppi a lavorare su dittonghi che magari non vogliono dire niente ma hanno un suono esotico, salvo poi vedere che ti si ritorce contro sui manifesti o nei media dove appariamo nove volte su dieci come Leads...
Nel tuo cantato ho colto vaghi sentori di Michael Stype ma anche la capacità di negramarizzarti, se mi passi il termine, con escursioni in falsetto, molto ben dosate a differenza dei più che ci riescono: ne convieni?
È molto soggettivo il recepimento della voce altrui, ci hanno fatto studi e dipende da come ognuno è fatto dentro l’orecchio: hai presente quando si afferma “non sopporto la voce di questo o di quello”? Noi sentiamo in maniera diversa e, come a te ricordo questi, a un altro potrei rammentare la soprano Montserrat Caballé. I R.E.M. non fanno prog ma hanno capacità di sperimentazione nel loro rock e dunque la direzione in cui hai guardato potrebbe essere quella giusta: in fondo anch’io non urlo quando canto. Invece dei Negramaro non saprei dirti nemmeno un pezzo purtroppo e neanche che musica fanno perché non ho mai avuto la televisione, sono sempre fuori casa e non ascolto la radio visto che con l’evoluzione di Internet posso sentire sempre quello che piace a me. Così però finisce che mi perdo tutto il mainstream.
Si avverte forte questa identificazione nel prog rock: cosa l’ha fatta scattare?
Non proprio quello classico degli anni ‘60/‘70, dove i gruppi quasi gareggiavano tra loro nel proporre canzoni complicate, lunghe e difficili da eseguire, ma piuttosto è il revival del prog di fine ’90 e inizio 2000 ad averci influenzato, il cosiddetto nu-prog. Quest’ultimo non privilegia l’ostentazione tecnica, a differenza di quello delle origini in cui, per scrollarsi di dosso la nomea di tossici derivata dall’aver praticato il genere psichedelico, i musicisti tennero a dimostrare che il rock poteva essere una forma d’arte elevata, con concept album d’ispirazione classica, opere rock, brani privi di ritornelli e tempi dispari. Ora l’importante è che la canzone, a prescindere dalla sua lunghezza, racconti una storia.
Eppure una certa irrequietezza stilistica, un’elaborazione non scontata e tante variazioni, si ritrovano anche in ognuna delle vostre composizioni o no?
È il motivo per il quale non riusciamo a pubblicare molto e a trovarci spesso tra di noi, privilegiando un lavoro dietro le quinte, perché di lavoro si tratta visto che quando anche arrivi ad avere una struttura ben precisa in mente devi poi riuscire a metterla insieme, adattandola agli apporti dei cinque o sei musicisti con cui suoni. Nel nostro caso, si tratta dei miei fratelli Damiano e Lorenzo Colombi, rispettivamente violino/tastiere e batteria ma ambedue anche ai cori, di Gabriele Munini al basso, Raffaele Barberio alla chitarra, cui si è aggiunto da un anno Andrea Dal Negro per alleggerirmi un po’ e farmi concentrare sul cantato alla terza chitarra.
Perché nelle canzoni usate l’inglese? Non credete così di perdervi nella massa globale, mentre con la vostra proposta musicale e testi in italiano ben potreste spiccare nel panorama nazionale?
È possibile e non è uno spunto cui non pensare. Io però sono cresciuto con la musica inglese, ho studiato Lingua e Letteratura inglese e le insegno, ho una magistrale in anglistica, quindi se si tratta di sguazzare tra metriche e rime a me vengono in mente in quella lingua. Faccio anche parte del gruppo cabarettistico dei Cababoz e mi sono pertanto cimentato con la composizione in italiano ma non mi esce altro che mare, sole e amore. Mi sento proprio impedito e non vi dico in tedesco...
[Daniele Barina]