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CULTURE

Il pop-rock sgualcito dei Rumpled
Intervista al bolzanino Tommaso Zamboni, fisarmonicista del gruppo regionale

07 music

Innamorati sin dall’inizio della musica celtica, motorizzata però a colpi di punk e di ska, The Rumpled compiono i dieci anni di attività. La band prevalentemente trentina di recente si è affidata alla voce del promettente cantante bresciano Giacomo “Jack” Merigo e annovera tra i suoi componenti anche il fisarmonicista bolzanino Tommaso Zamboni, classe 1996, membro altresì del collettivo cabarettistico-musicale dei Cababoz e conduttore del programma di Radio RAI Onde Vagabonde.

Lo raggiungiamo mentre, dopo l’EP in vinile e in digitale dello scorso anno Dancing Scars, è in studio appena fuori Milano per registrare nuovo materiale con il gruppo che si compone, oltre ai già citati, di Patrizia “Patty” Vaccari al violino, Davide Butturini alla chitarra, Luca Tasin al basso e Federico Fava alla batteria.

Essere figlio dell’inventore della cronaca musicale altoatesina sul quotidiano locale è stato più importante per te come chiave d’accesso alla musica o, visto che lui non suonava, come impulso all’approfondimento di uno strumento per migliorare la specie?
Diciamo che sono cresciuto in un ambiente musicale nonostante mio padre Fabio non suonasse, che in casa c’è sempre stata una parete di dischi e che sono stato portato già da bambino ad alcuni concerti dal vivo. Al di là del clima favorevole, vincente è stato ricevere in regalo a otto anni una fisarmonica portata da un musicista bulgaro che doveva sdebitarsi in qualche modo per una serie di concerti che mio padre aveva aiutato a organizzare. Così ho cominciato a suonare ma altrimenti non so se avrei preso mai in mano una fisarmonica.

The Rumpled sarebbero “Gli Sgualciti”: come mai questo nome?
Il nome preesiste al mio ingresso nel gruppo dunque non vi ho contribuito, ma riassume bene quello che siamo tuttora: persone diverse tra loro dal punto di vista musicale che trovano la quadratura sul palco e riescono a fare cose insieme nonostante queste differenze. Amiamo definirci “sgualciti” per la nostra mancanza di perfezionismo, visto che anche il genere non lo richiede, per il nostro essere sufficientemente ruvidi e direi quasi una carovana da palcoscenico che vede nel live la sua cifra migliore e non bada tanto ai dettagli come si fa invece in studio.

Pensare ai Pogues tra i vostri modelli è lecito?
Il gruppo era partito come cover band di irish, rifacendosi ai Modena City Ramblers come pionieri del genere in Italia, ma di recente con il nuovo cantante abbiamo preso una direzione nostra, meno celtic e più pop-rock, con un tocco di folk che è connaturato agli strumenti melodici come la fisarmonica e il violino. La musica irlandese resta pertanto un’ispirazione ma non corrisponde più a quell’urgenza filologica che avvertono ancora molti gruppi che abbiamo apprezzato come The Pogues, pur praticandone poi i contesti tipici per esibirci.

A cantare in italiano ci avete mai pensato?
In realtà nel 2015, un paio d’anni prima del mio ingresso in formazione, il gruppo ha registrato un EP nella nostra lingua, un esperimento utile a renderci chiaro che per il nostro genere l’inglese è la soluzione migliore anche in considerazione del fatto che suoniamo prevalentemente in festival open air all’estero, in Francia, Germania o in Repubblica Ceca dove apprezzano molto questo tipo di musica. A metà marzo prossimo, quando si celebra San Patrizio, saremo in tour una settimana in Inghilterra e due in Germania in locali al chiuso, ma tra maggio e settembre facciamo sempre trenta o quaranta date all’aperto.

Una bella soddisfazione immaginiamo…
Sì, è la cosa che ci fa più piacere anche perché nessuno di noi è musicista di professione, lo facciamo per hobby anche se assomiglia a un secondo lavoro. Così rincuora che più di dodici milioni di persone abbiano ascoltato online le canzoni scritte da noi in cameretta e che ai concerti talvolta ci siano migliaia di persone che saltano al ritmo delle nostre canzoni. In Francia ci ha sorpreso vedere il pubblico che le canta, anche se la soddisfazione più grande è stata quella di aprire il live di Vasco Rossi a Trento davanti a 120.000 persone che siamo riusciti a far saltare tutte e ad applaudire ritmicamente quando lo chiedevamo noi dal palco.

Oltre al bolzanino Matteo Facchin, col quale ti sei formato inizialmente per poi diplomarti a Rovereto presso il CDM-Centro Didattico Musicateatrodanza mentre ti laureavi in Filosofia a Verona, quali sono i tuoi fisarmonicisti preferiti?
Un nome importante per me è quello di Vladimir Denissenkov, un russo naturalizzato italiano che vive in Italia da tantissimo e che suonava con Moni Ovadia, lavorando anche con Ale e Franz.

[Daniele Barina]

 

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