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CULTURE

L’artista che si definisce autore
Matteo Jamunno comunica e intrattiene in continue acrobazie del pensiero

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Classe 1983, Matteo Jamunno nasce a Napoli, cresce a Bolzano e fa arte a Vienna dove, a differenza che in Alto Adige, non fatica a definirsi artista. Dalla musica alla poesia, dal romanzo al racconto, passando per l’illustrazione, Matteo comunica e intrattiene, narrando universi artistici ed esperienze di vita, in continue acrobazie del pensiero.

“Mi definisco autore e non artista perché credo che gli artisti sono quelli che credono in loro stessi, mentre io non credo in me stesso”. Ha pubblicato il romanzo “Nel Gnome del Padre” (Raetia, 2023) e la raccolta di storie brevi illustrate “Mi annoiavo molto - Prima parte” (Unterins Comics, 2024).

Matteo, come nasce il desiderio di raccontare?
Dalle gare che facevo con mio padre da piccolo, per vedere chi riusciva a inventare e raccontare la storia più assurda e divertente, per farci ridere a vicenda. Poi, tra i banchi di scuola, quando ho iniziato ad ammorbare con le mie poesie la mia professoressa di filosofia, anche se il mio debutto come autore è stato con un piccolo pezzo teatrale scritto per il Festival Studentesco. Con i primi social network ho trovato uno spazio in cui potevo scrivere senza essere giudicato, e quindi sono diventato un blogger-autore, soprattutto su Tumblr.

Racconti usando linguaggi diversi: canzoni, poesie, romanzi, racconti. Come ti giostri tra questi stili?
Molto spesso quello che scrivo nasce da qualcosa che è accaduto, che poi si infila come un semino nella mia testa; man mano che si sviluppa definisco - anche grazie all’esperienza accumulata negli anni - quale può essere il luogo dove farlo maturare al meglio. Lascio tutte le idee nella mia testa fin quando trovo una forma o una destinazione per loro. Ho la fortuna di avere svariati ambiti in cui posso esprimermi, e cerco sempre di dare una casa giusta alle idee, quando nascono. È difficile, spesso mi sbaglio e devo tornare indietro, nella mia testa c’è sempre un cantiere in atto per definire dove posizionare le idee. Il romanzo, ad esempio, è nato come un post su un social e doveva essere una storia breve, formata dai primi due capitoli. Ci ho messo undici anni a capire che doveva essere qualcosa di più. Altre idee invece sono appunti che, se mi rimangono impressi, inizio a elaborare maggiormente, ma capita anche che diventino solo una battuta. A volte sono nate canzoni che sono diventate poesie o viceversa. Bisogna essere sempre pronti a modificare le aspettative; non mi dico mai a priori cosa devo fare e cerco di non limitarmi.

Hai detto che il tuo romanzo è nato da un post. Come è andata?
Era il 2011 e tutto è nato dal desiderio di sperimentare una scrittura numerica: ho cominciato a descrivere il modo in cui erano posizionate 83 statuette di gnomi all’ingresso di un giardino, per il gusto di vedere dove potessi arrivare. Ho scritto i primi due capitoli e anche loro sono diventati dei semini nella mia testa a cui per anni ho continuato a pensare. Nei due capitoli c’erano il giardino, un Tir di statuette che piomba dal cielo e investe la moglie di uno dei protagonisti, Luis. E poi questo villaggio con un supermercato, una famiglia giovane arrivata a gestire il ristorante e alcuni elementi che sono cresciuti nella mia testa fino al 2022, quando ho iniziato a scrivere il romanzo.

E poi?
Il libro inizia con un flashback di 10 anni prima, di Luis che si sta occupando delle rane della moglie, finché non cade un Tir dal cielo - grande mistero - da cui escono queste 83 statuette di gnomi e la investono. Così il vecchio vedovo si prende cura delle statuette, nel silenzio e nel dolore del suo lutto. Arriva una famiglia - che prende in gestione il ristorante - con una figlia ventenne, che gira annoiata per il villaggio popolato da soli vecchi, e si trova al cospetto di queste 83 statuette di gnomo disposte in ordine particolare. Quindi inizia a porre domande al vedovo. Insomma, il romanzo nasce su uno scontro generazionale tra una persona che ha rinunciato a tutto, Luis, e una persona che ha un forte desiderio di vivere, Greta, la ragazza, che scopre i misteri del villaggio e inizia a fare quello che secondo me i giovani dovrebbero fare, ovvero rompere le scatole agli anziani.

A chi consiglieresti questa storia?
Alle ragazze sui 20 anni che non vogliono essere racchiuse all’interno di una definizione, alle persone che pensano che si debba distruggere tutto, ma farlo puntando sempre più in alto, e agli anziani. Non mi rivolgo ai miei coetanei, in parte perché mi sento in difetto, in parte perché penso che vedano l’usare la fantasia e l’immaginazione come una cosa inopportuna, mentre sia i giovani sia gli anziani navigano ancora così.

Prevedi un sequel?
Ho lasciato aperte molte questioni e mi piacerebbe avere il tempo e la condizione mentale necessaria per poter scrivere il seguito, ma è vero che ho tante cose aperte con cui voglio andare avanti. L’anno prossimo vorrei dedicarmi finalmente al mio album che ho lasciato in sospeso per due anni.

Al romanzo volevi anche affiancare uno spettacolo: ci sei riuscito?
Sì. È stato un esperimento ed è stato uno spettacolo ibrido, fra storie e canzoni. L’ho portato in scena quest’estate al festival “Identity in Motion” dell’associazione lasecondaluna. Mi è piaciuto molto perché c’è stato un momento in cui si è letto il romanzo, poi un momento in cui la lettura delle storie brevi ha avuto un accompagnamento musicale e poi una parte finale di concerto.

Hai pubblicato anche una raccolta di storie brevi...
“Mi annoiavo molto” è uscita per Unterins Comics, la casa editrice di Armin Barducci - uno dei più grandi autori e illustratori che abbiamo in zona - a cui ho detto subito di sì perché avevo nel cassetto molte storie che non vedevo l’ora di tirare fuori. Alcune le avevo pubblicate su Instagram durante il covid, altre sono inedite. Volevo però che fossero accompagnate da illustrazioni, e dopo il rifiuto di un’illustratrice, questa mi ha consigliato di farle io. Quindi mi sono messo ad illustrare. E mi è piaciuto tantissimo.

[Ana Andros]

 

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