Sergio Rubini e il caso del dottor Jekyll
A Bolzano una nuova interpretazione del celebre romanzo di Robert L. Stevenson
Dal 9 al 12 gennaio Sergio Rubini porta al Teatro Comunale la storia di Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Nell’adattamento di Rubini e Cavalluzzi, coprodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, Daniele Russo sarà lo stimato dottore e il suo doppio, offrendo però delle “sovversioni” che daranno nuova luce e interpretazioni ad una storia che è ben nota al pubblico.
Incontriamo Sergio Rubini, che è anche regista dello spettacolo e cointerprete, per sondare le profondità di una trama senza tempo.
Rubini, perché questo testo?
Con Carla Cavalluzzi, che è anche mia moglie e e con cui ho condiviso le esperienze teatrali degli ultimi anni, venivo da Delitto e castigo di Dostoevskij e da Dracula di Bram Stoker, romanzi che affrontavano il tema del “doppio sé”. È dunque da alcuni anni che sono interessato al tema della dualità, che mi affascina soprattutto perché lo affrontiamo dal punto di vista di autori che non avevano ancora risentito dell’influsso della psicanalisi e del concetto freudiano di inconscio. Già nei tempi antichi l’uomo sospettava di avere un “familiare” con cui convivere, ma solo nell’Ottocento si è giunti al punto in cui trasformare questa indagine in un’indagine scientifica.
Il modo un po’ rozzo e primitivo con cui Robert Louis Stevenson affronta il tema del doppio mi affascina, perché è ancora incompleto e in costruzione. Quando tutto questo diventa scienza, la materia si fa meno romanzesca ed inizia ad aver a che fare più con i numeri e meno con la fantasia. Il libro in questione è assolutamente imperfetto, esso ci racconta addirittura che il dottor Jekyll per accedere al suo doppio deve prendere una pozione, non collocando questa parte oscura dentro di sé. Nel caso di Dostoevskij i “doppi” convivono all’interno del protagonista e non devono essere evocati con un artificio.
Perché portarlo in scena ora?
Ho deciso di portare oggi questo testo a teatro perché quello del doppio continua a essere un problema fondamentale nell’esistenza umana. La psicanalisi ci dice che dobbiamo affidarci a un soggetto terzo per venire a capo di questa situazione, come facciamo per qualsiasi malanno del corpo. Tuttavia, spesso attribuiamo i nostri malesseri e quelli dei nostri figli ad una presunta caratterialità e instauriamo col nostro doppio un dialogo che spesso è sbagliato: ci vergogniamo di lui e cerchiamo di rimuoverlo, ma più lo nascondiamo e più lo nutriamo e rendiamo seduttivo.
La storia di Dottor Jekyll e Mister Hyde è arcinota: quali sono stati gli accorgimenti per evitarne le ovvietà?
Siamo partiti dall’idea di collocare gli eventi 25 anni dopo rispetto a quando Stevenson li ha narrati. Per noi Hyde e Jekyll sono la stessa persona e non c’è bisogno di usare una pozione per evocare il lato oscuro. Abbiamo poi posto una premessa “psicanalitica”, decidendo di partire da Mister Hyde e non dal dottor Jekyll, ritenendo che prima di Jekyll ci sia un individuo primitivo che vive nel protagonista e che arriva prima di quello che in qualche modo è frutto di una maschera pubblica. La lettura stevensoniana è molto manichea, c’è prima il bene e dopo il male. Nel nostro spettacolo è Hyde a trasformarsi in Jekyll e, siccome il romanzo è piuttosto misogino e sono previsti solo tre protagonisti di sesso maschile, abbiamo inserito una figura femminile. Non si tratta di una “quota rosa”, ma di un elemento che rende più realistico il protagonista e offre una nota di detection con una sorpresa finale ad una storia di cui tutti conoscono tutto. La cattiveria di Mister Hyde è solo accennata e non esplicita, ma il rapporto con la moglie ci ha permesso di enfatizzare l’aspetto notturno, più pericoloso e incline al degrado del dottor Jekyll.
Scire nefas diceva Orazio, il sapere (troppo) nuoce. Pone un limite alla profondità della sua indagine?
Penso che un artista abbia il dovere di affacciarsi sul baratro della propria coscienza, che abbia il compito di conoscersi e accettarsi, di rischiare quotidianamente di perdersi. L’artista ha come mandato quello di dedicarsi ad un viaggio introspettivo, nel buio del proprio inconscio può trovare i personaggi che in qualche modo riproduce. Un vero attore non imita, ma propone ciò che è dentro di sé.
Quale dei due “Sergio Rubini” sceglie gli spettacoli da portare in scena?
Cerco di far dialogare queste parti di me, da 25 anni faccio analisi e ho cercato di far affiorare la mia parte scura cercando di riconoscerla, perimetrandola. Temo di non essere mai stato in grado di riuscire ad agire senza che le mie paure, le mie angosce, tutte le mie ansie, mettessero il becco nelle mie scelte. Nella prima parte della mia vita l’analisi mi ha sicuramente aiutato a risolvere dei problemi, altri sono rimasti assolutamente aperti e risolti. Detto questo, come già detto, penso di aver conquistato una consapevolezza che mi permette di guardarmi dall’esterno. Sbaglio, sbaglio, continuo a sbagliare, a prendere curve a velocità troppo alta o a frenare quando non devo.
[Mauro Sperandio]