Coming-Out: donne che amano le donne
Al Museo delle Donne di Merano fino a dicembre il lavoro di Lisa Settari
Fino a dicembre 2024 il Museo delle Donne di Merano propone al pubblico “Coming-Out – Donne che amano le donne in Alto Adige si raccontano”. In forma di mostra, la storica altoatesina Lisa Settari, docente presso l’Università “Alexandru Ioan Cuza” di Iași (Romania), offre al pubblico alcuni estratti dalle venti interviste realizzate con donne altoatesine che hanno raccontato la loro esperienza d’amore omosessuale nel contesto altoatesino.
Ad accompagnare le parole raccolte dalla storica altoatesina, in una vetrina compaiono alcuni oggetti legati alla storia di queste persone: “normalissime testimonianze d’amore”, perché non si tratta d’altro, ma che assumono significati diversi e profondi, perché parte della società si arroga il diritto di giudicare ed emarginare. Incontriamo Lisa Settari per sentire dalle sue parole cosa il suo lavoro ci svela.
Cosa raccontano le testimonianze raccolte della storia contemporanea della comunità queer altoatesina?
Quando penso al passato e alla percezione del passato dell’Alto Adige, in quanto sudtirolese e studiosa di Storia, mi vengono in mente la storia politico-militare della provincia, i concetti di identità, comunità e minoranza rispetto alle nostre pratiche linguistiche ed i silenzi. L’esempio per eccellenza sono le Opzioni, che sono state sostanzialmente un argomento tabù quasi fino agli anni Ottanta. Il silenziamento, o l’invisibilizzazione come la chiamo nella mia tesi, è una pratica che ho trovato anche nelle narrazioni delle mie partecipanti. Secondo loro, quando erano giovani, le donne che amano le donne praticamente non esistevano, né nei media né nella vita pubblica né in famiglia o altrove. Non si vedevano e non se ne parlava; alcune dicono addirittura di non avere le parole giuste per descrivere come si sentivano da giovani. Non è sorprendente, quindi, che la ricerca sulla storia delle sessualità in Alto Adige sia ancora all’inizio. La buona notizia è che, attualmente, si può percepire un grande interesse per questo argomento. Spero quindi che potremo leggere nuove pubblicazioni e, di conseguenza, che saremo in grado di comprendere meglio la storia culturale e sociale dell’Alto Adige in generale.
Quale esperienza ricorda con particolare partecipazione?
Mi aspettavo che le partecipanti mi avrebbero raccontato episodi di discriminazione, mobbing o di esclusione molto offensivi e diretti. Invece le loro storie raccontano di una più grande ambiguità rispetto alle donne che amano le donne: pare che più spesso ci sia stato un silenziamento, un’invisibilizzazione della realtà di vita delle partecipanti. Ovviamente, questo non significa che l’Alto Adige sia stata una terra che accetta diverse sessualità.
Tra gli oggetti esposti, ha proposto un intreccio di fili che rappresentano collegamenti alla luce del sole o sommersi. Quale il significato metaforico di questa rappresentazione?
Con questo oggetto volevo proporre una decostruzione del termine di coming-out, che deriva dall’inglese coming out of the closet, ovvero “uscire fuori dall’armadio”, e che si riferisce sia alla realizzazione del proprio orientamento sessuale, sia alla comunicazione di quest’ultima ad altre persone. Nella vetrina abbiamo piazzato un armadietto per metà aperto, dal quale escono alcuni fili rossi che si diramano in direzioni diverse. Ce n’è uno che torna dentro l’armadietto, altri s’intrecciano e in alcuni sono apparsi dei nodi. Il mio obiettivo era rappresentare il fatto che esistono tantissimi modi di fare coming-out. Non si tratta di una sola dichiarazione irreversibile, che c’è anche chi “rimane nell’armadio” per una ragione o un’altra, che “uscendo alla luce” ci possono essere relazioni, alleanze e reti oppure che si può anche condurre un viaggio solitario. Insomma, si tratta di un tentativo umile di illustrare un fenomeno personale e sociale nella sua complessità.
Dagli anni ‘70 ad oggi la nostra società è progredita nella sua capacità di accogliere le diversità? Quali sono le sfide odierne?
Questa domanda mi fa pensare al libro fantastico sui movimenti legati al ‘68 in Alto Adige, scritto da Birgit Eschgfäller. Lei sostiene che quel movimento è anche stato presente in Alto Adige, ma più tardi e meno intensamente che altrove. Risponderei dunque che sì, la situazione è cambiata, ma tardi e lentamente. Per quanto riguarda la visibilità pubblica e gli sviluppi istituzionali abbiamo sicuramente fatto dei grandi passi, anche in Alto Adige. Da una trentina di anni c’è l’associazione Centaurus, poi si sono aggiunte iniziative più piccole come “Homophobie ist keine Meinung” e l’anno prossimo vedremo finalmente il primo Pride a Bolzano. È infinitamente più complicato valutare i cambiamenti nelle mentalità, ma le “mie” partecipanti hanno spesso evocato cambiamenti anche a quel livello. Benno Gammerl, uno storico che lavora sulla storia queer nella Repubblica Federale di Germania, ci avverte di non credere ciecamente ad un progresso necessario verso una società che apprezza la diversità. Se è quello che desideriamo, ci vorrà sempre una lotta collettiva, sociale e politica che può anche partire dall’ascolto individuale, nel non-silenziamento di una realtà che forse in un primo momento non siamo in grado di comprendere.
[Mauro Sperandio]