20 anni di fermento raccontati da Grazia Barbiero
Scenari in movimento: gli anni Settanta e Ottanta in Alto Adige/Südtirol
Grazia Barbiero, protagonista della politica e del movimento femminista altoatesino, è autrice del libro “Scenari in movimento – Gli anni Settanta e Ottanta in Alto Adige/Südtirol”, recentemente pubblicato da Edition Raetia.
In questo libro Grazia Barbiero riporta in maniera meticolosa un importante spaccato di un Alto Adige impegnato e con una visione del futuro, che vedeva protagonisti la sinistra politica, il movimento femminista e il mondo dell’arte. Incontriamo l’autrice per raccogliere un racconto in cui l’esperienza personale e la materia della pubblicazione si intrecciano.
Prima ancora della sua attività di storica, rileva il suo ruolo della vita politica e sociale altoatesina. Come nasce il suo impegno?
Sicuramente mi è stato di stimolo il periodo storico di grande fermento in cui mi sono trovata ad essere adolescente e poi adulta, ma non posso non considerare anche il contributo dato dalla mia famiglia alla mia formazione culturale e politica. Mio padre ha sempre praticato il principio della non violenza sia in casa sia nella sfera pubblica; cattolico praticante, è sempre stato convinto che anche le figlie femmine avevano il dovere di conoscere l’educazione civica, la storia e i programmi dei partiti politici.
Avevo tre fratelli che, quando io sono nata, frequentavano già il liceo o l’università; a loro, ogni settimana, chiedeva quali fatti d’attualità li avessero maggiormente colpiti. Ai tempi delle scuole elementari, il papà decise che era tempo che io assistessi ai comizi elettorali di personaggi quali La Malfa, Malagodi e altri nomi illustri. Da cattolico fervente, però, non si sentiva di portarmi alle manifestazioni pubbliche del Partito comunista, anche se a questo riconosceva una notevole convergenza di vedute con la Chiesa, per quanto riguardava l’attenzione per chi era escluso o tenuto ai margini della società. Nemmeno ai comizi del MSI andavamo, perché erede del Partito Nazionale Fascista. Altra “anomalia” della nostra famiglia, considerati i tempi, era il fatto che mio padre era bilingue e in casa si parlavano l’italiano e il tedesco.
Ironia del destino, lei non solo entrò proprio nel PCI, ma ne divenne anche segretaria della federazione altoatesina nel 1983.
Mio padre non avrebbe mai voluto che io entrassi nel PCI, a causa di un vizio originario dell’ideologia comunista. Il fatto che Karl Marx considerasse la religione “l’oppio dei popoli” era una pregiudiziale assoluta. La prima volta che assistetti ad un comizio di un esponente del Partito comunista ero studentessa del primo anno di università a Milano, dove frequentavo l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Della sua biografia non si può trascurare la figura di suo marito Jacob De Chirico, politicamente attivo con gli strumenti dell’arte.
Quando ci siamo sposati frequentavo ancora l’università. Lui, più grande di me di una decina d’anni, agiva nella giusta convinzione che la nostra terra non poteva essere governata secondo un principio di separazione tra i due gruppi linguistici. Operando nella realtà di lingua tedesca, ma bilingue, ispirava il suo lavoro a temi di interesse politico e sociale, criticando ogni nazionalismo. Assieme ad altri artisti diede vita a quel Kulturzentrum che, dal ‘75 al ‘95, promosse attività culturali che erano un vero pugno nello stomaco di chi, come l’assessore provinciale alla cultura di lingua tedesca Anton Zelger, predicava la divisione in modo anacronistico.
Di questa divisione lei parla anche raccontando gli episodi che interessarono due classi dei licei scientifici meranesi di entrambe le lingue.
Si trattava di uno scambio di studenti tra il liceo di lingua tedesca e quello di lingua italiana, che frequentavano a turni settimanali le lezioni gli uni nella scuola degli altri. L’esperimento venne bloccato dall’intendente alla Pubblica istruzione di lingua tedesca, che trovò il sostegno del suo omologo di lingua italiana. Pensando a chi promosse e condusse l’esperimento, agli studenti e ai loro genitori, non mi sento di dire che fossero all’avanguardia o precorressero i tempi. Il loro desiderio era legittimo e maturo per quell’epoca, ma fu stroncato da una politica miope. Era il 1979.
Il suo libro ci mostra con grandissima precisione la forza e la varietà dell’universo femminista.
Mi ero sempre interessata ai movimenti di emancipazione delle donne nel mondo: dalle suffragette, che lottavano per conquistare il diritto di voto, passando per le partigiane impegnate nella liberazione dal nazi-fascismo. Seguivo poi l’attività dell’Unione Donne Italiane-UDI, che nasceva dall’esperienza della Resistenza e aveva ben chiara l’importanza del bisogno che le donne fossero unite e impegnate a partire dal proprio privato, che doveva diventare di importanza pubblica. Nel libro, citando date, nomi e cognomi altri riferimenti precisi, dò conto del fatto che tutti i tanti e vari movimenti femministi della nostra provincia avevano un importante comune denominatore: volevano una società dell’incontro e non della separazione.
Mi hanno colpito la serietà e la dedizione delle donne, ma non solo, che con grandissimo impegno studiavano i temi di loro interesse e stendevano relazioni da presentare alle assemblee, in modo davvero professionale. Cosa è rimasto oggi di questo immane impegno?
Gli anni ‘70 e ‘80 hanno prodotto una nuova coscienza della soggettività delle donne e nelle donne. Se oggi assistiamo al fenomeno del femminicidio è perché le donne di oggi, se la loro vita di coppia non le convince, hanno il coraggio di ribellarsi. Contemporaneamente, però, non troviamo negli uomini la capacità di accettare questa nuova soggettività femminile. Il mio appello va ai giovani e agli intellettuali affinché dicano una parola di condanna, significativa e condivisa, contro la violenza nei confronti delle donne. Si tratta di una questione di democrazia e civiltà..
[Mauro Sperandio]