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CULTURE

Geena B. & Rufus: Folk Americana alla canapa
Il duo artistico e di vita, autore di due album, si esibirà l’8 marzo a Prato Stelvio

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Dopo approcci separati alla musica, da vent’anni formano un sodalizio artistico e di vita coltivato con passione, come la canapa che crescono per il loro marchio di moda e prodotti di bellezza the Bad Seeds Company: parliamo di Geena B. Valentine & Rufus, lei cantante e lui polistrumentista della Bassa Atesina che saranno sul palco in Val Venosta la sera dell’8 marzo, presso la sala della Scuola di Musica di Prato allo Stelvio (ore 19).

Un paio di cover band alle spalle per farsi le ossa, il gusto musicale per il rhythm&blues orientato come per molti dalla visione del film The Blues Brothers, la coppia si è in seguito dedicata al proprio songwriting che ha portato a due album di composizioni raffinate, più programmate da radio europee, australiane e statunitensi che dalle nostre.

Siete da tanti anni nella musica ma da poco con brani originali: una tardiva scoperta?
Geena: Anche quando facevamo cover c’erano già le composizioni originali. Rufus che le scrive penso abbia cominciato fin dall’età di quattordici anni quando ancora non ci conoscevamo. Insieme siamo partiti comunque dalle cover, abbiamo raggiunto una certa notorietà con i gruppi da noi messi in piedi e suonavamo molto in giro. Poi sono venuti i figli che oggi hanno appunto vent’anni e la conseguente decisione di rallentare le esibizioni per provare a buttarci in quello che volevamo fare da tanto…
Rufus: … con i bimbi piccoli, quella di mollare un po’ il palco è stata una necessità più che una scelta anche se io dico, scherzando fino a un certo punto, che mi scrivo le canzoni mie perché non so suonare quelle degli altri! La cosa ci è piaciuta, ci siamo divertiti un sacco e insistiamo.

White Mice del 2022 è in pratica la vostra prima pubblicazione?
R.: È il primo disco inciso professionalmente. Vivevamo ad Amburgo e abbiamo conosciuto dei musicisti australiani che erano in tour in Germania. Sentite le canzoni, questi si sono resi subito disponibili a venire in studio con noi gratuitamente, abbiamo accennato loro con chitarra e voce le composizioni e in due o tre giorni si sono registrati basso, batteria e chitarra elettrica per due album, appunto White Mice ed Echoes from the Fields. Presi dal lavoro, abbiamo lasciato in un cassetto queste registrazioni e dopo tre anni, una volta rientrati in Italia e complice l’arrivo del Covid, ci siamo detti che era il momento per rimetterci mano, aggiungendo la voce, un po’ di fisarmonica, una cigar box guitar, fino a pubblicare uno dopo l’altro i due dischi e poterci ora cimentare nel terzo.

In quale ambito musicale ritenete di poter inquadrare le vostre canzoni?
G.: Partiti con il rhythm&blues, siamo poi rimasti suggestionati dal folk americano e da artisti come Nora Jones o Tom Waits che piace molto a Rufus, non escluso un certo pop ascoltato dai figli, nomi come Jack White di The White Stripes che ormai si contendono il mio interesse con leggende come Willie Nelson. Abbiamo scoperto, perché nemmeno lo sapevamo, che il nostro genere sarebbe il “Folk Americana”.
R.: Si chiama proprio così, Folk Americana: l’abbiamo appreso da un distributore statunitense. La categoria riassume quelli che fanno blues senza fare vero blues, un po’ di folk, un tocco di country e un po’ di jazz, comunque a base folk. I puristi di ognuno di questi generi stenterebbero però a farvi rientrare del tutto ciò che stanno ascoltando, a parte alcuni accenti, un carattere di questa musica che apprezzo moltissimo.

Però per l’attività d’impresa avete scelto il nome di Bad Seeds, i semi cattivi: ispirandovi a Nick Cave?
G.: Sì, inutile negarlo... (ride). La canapa è la nostra seconda passione, non nel senso che ce la fumiamo ma in un’ottica di ecosostenibilità: proveniamo entrambi da famiglie contadine e ci piacerebbe vedere anche qui nella Bassa tante coltivazioni di questa pianta, anziché tutti quei meli, conferita ugualmente in cooperative. Proprio per la canapa e per la musica ci siamo spostati in Germania. Le cose procedevano un po’ lentamente all’inizio, ora si evolvono in modo molto rapido: oltre a realizzare tessuti in canapa abbiamo allo studio materiali sostitutivi della plastica, dei polimeri tratti sempre da questa, un fatto che ci rende molto fieri. Per il resto siamo quasi schivi, poco attenti a curare i media, piuttosto che proporci sulla scena locale preferiamo scrivere alle radio americane o inglesi che poi ci agganciano i brani alla loro rotazione.

Dal vivo andate con una band elettrica o riproponete le vostre canzoni unplugged?
R.: Piuttosto unplugged, come recentemente è accaduto nei nostri concerti in Svizzera al Songbird Festival di Davos che è una vetrina del songwriting tra le più importanti, dove abbiamo suonato anche senza corrente del tutto. Non usiamo mai basi ma all’occorrenza abbiamo una band, a organico molto variabile e composta da musicisti di Egna. Stiamo anche lavorando con Tiziana Sottovia ai violini delle canzoni.

Contenti di essere rientrati nella Heimat o scorgete qualche problema?
R.: Il primo dei due grandi problemi che credo abbiamo in Alto Adige è che stiamo troppo bene e finché la pancia è piena il cervello lavora poco. Il secondo problema sta nel fatto che la provincia è troppo verde, cosicché ci s’inganna: sembra tutto bello ma non è natura, se non in minima parte. La terra agricola, per esempio, è dissanguata al punto che bisogna portarne da fuori per ricoltivare un campo e attendere tre anni per vedere le prime piantine.

[Daniele Barina]

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