“Io resto qui” arriva a novembre in teatro
Francesco Niccolini ha curato la trasposizione del romanzo di Marco Balzano

Il mese scorso si sono tenute a Bolzano, in residenza al Teatro Cristallo, le prove dell’ultimo lavoro di Francesco Niccolini, la trasposizione teatrale dell’intenso romanzo di Marco Balzano “Io resto qui” (Einaudi, 2018), ambientato a Curon, in Val Venosta, ai tempi del ventennio fascista e della costruzione dell’invaso che ha sommerso l’intero paese, costringendo i suoi abitanti ad abbandonare i luoghi delle proprie radici.
Lo spettacolo, che debutterà in novembre sempre al Teatro Cristallo, vede sul palco Arianna Scommegna e Mattia Fabris. Le scene sono di Antonio Panzuto, i costumi di Emanuela Dall’Aglio, le luci di Alessandro Verazzi e le musiche originali di Dimitri Grechi Espinoza (Produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa).
Niccolini, come nasce il progetto della trasposizione teatrale del romanzo “Io resto qui” dello scrittore Marco Balzano?
Quando, nel 2021, ho cominciato a Bolzano il lungo percorso di collaborazione – drammaturgica e registica – sulle tematiche del territorio, la direttrice Gaia Carroli mi ha parlato di questo bel romanzo, che ho letto e che mi ha conquistato. Ho contattato Marco Balzano e gli ho esposto il mio desiderio di trasformarlo in una pièce teatrale. Lui si è dimostrato molto disponibile; ne ho discusso quindi con il direttore del teatro Stabile, Walter Zambaldi, che ha dato l’avallo e il sostegno al progetto. Si è mossa la macchina organizzativa e quest’anno, dopo la mia stesura del copione, siamo partiti con l’allestimento.
Quali sono stati i criteri che hanno guidato le scelte stilistiche, a livello drammaturgico in primis e poi registico?
Prima di tutto avevo a disposizione due attori, e questo è stato il primo forte legame estetico e formale. Ho pensato da subito che avrei dovuto confezionare uno spettacolo a cavallo tra teatro di narrazione e teatro drammatico, dove i due attori sarebbero fondamentalmente stati i due protagonisti del romanzo, Trina ed Erich, ma avrebbero anche dovuto interpretare altri personaggi. Come nel romanzo, ho mantenuto la struttura del racconto a una persona che non vediamo, la figlia Marika, scappata durante le opzioni. Rispetto al romanzo, però, c’è una differenza: nel romanzo scopriamo alla fine che Erich, il marito, è morto, mentre per me è stato un dato narrativo da cui partire. Il personaggio di Mattia Fabris è dunque diventato il fantasma, o il ricordo, di Erich che dialoga con Trina. In realtà, dunque, ciò che vediamo in scena si svolge tutto nella testa di Trina. Avendo scoperto che ogni due anni il lago viene svuotato per manutenzione, ho deciso di farne l’espediente scenico di partenza: nella mia ideazione, a ogni svuotamento del lago, di notte, una Trina ormai anziana torna lì, officiare il proprio rito laico e in quel luogo – a metà tra il reale e il metafisico – le riappaiono pian piano tutti, a iniziare dal suo Erich. Tale espediente mi ha permesso di dare un’unità alla storia, alla drammaturgia e anche alla regia: con una scelta evidentemente e inevitabilmente surreale, perché non c’è un tempo reale degli avvenimenti, ma tutto avviene nel tempo del ricordo.
La scenografia e le musiche sono elementi che si fondono perfettamente con le voci dei protagonisti, le accompagnano e le sostengono, regalandoci la sensazione di essere immersi in quel mondo, in quel tempo, in quella temperie storico-culturale, sebbene in un’ambientazione molto rarefatta. Come è avvenuta la scelta dei collaboratori artistici?
A differenza di altri miei spettacoli, volevo che ci fosse un’ambientazione musicale unica e che il lavoro fosse accompagnato da una cifra molto “notturna”. Sono giunto alla conclusione che il sassofono fosse lo strumento giusto. Ho contattato un sassofonista di cui ho molta stima, Dimitri Grechi Espinoza, che partendo da alcuni brani esistenti me ne ha creati di nuovi, scomposti, deformati, ampliati, rarefatti. Per quanto riguarda la scenografia, molto onirica, mi sono avvalso della collaborazione di Antonio Panzuto: gli ho chiesto di ricostruire in maniera artistica e simbolica il lago svuotato e una Curon che deve “esistere e non esistere”: il risultato è questo bellissimo e suggestivo villaggio su palafitta che compare e scompare e che viene illuminato in maniera magistrale dalle luci – emozionanti e commoventi – di Alessandro Verazzi.
Per quanto riguarda gli attori, ecco una testimonianza del loro coinvolgimento nel progetto.
Arianna Scommegna. Non conoscevo la storia di Curon, l’ho appresa grazie al libro di Marco Balzano. È stata una grande occasione per immergermi in un pezzo di storia del nostro Paese, che peraltro affronta un periodo così decisivo; per andare a guardare da dove veniamo e quali sono i meccanismi, politici ed economici che determinano certe scelte, certi stravolgimenti. Essere in Alto Adige a provare e avere, intorno, i luoghi di cui si parla nello spettacolo, te li fa vivere ancora di più; ti senti immerso nell’ambiente di cui stai raccontando, anche se poi diventa un paradigma più grande, più universale: questa non è solo la storia del Sudtirolo, ma una metafora per tantissime altre vicende umane, in cui quelle che “pagano”, sono, in definitiva, sempre le persone. La collaborazione con Francesco Niccolini è stata molto preziosa perché è un drammaturgo che sa molto ascoltare, che si mette in relazione, che ha voglia di entrare nel vivo della costruzione condivisa. La collaborazione con Mattia Fabris invece risale ancora ai tempi dell’Accademia, sono trent’anni che lavoriamo insieme; eppure, quando ti metti in una situazione nuova, scopri qualcosa che ancora non conoscevi, mantenendo la capacità di stupirti, senza dare nulla per scontato.
Mattia Fabris. Con questo lavoro ho avuto l’occasione di incontrare Francesco Niccolini, che conoscevo ma con il quale non avevo mai lavorato. Con Arianna, invece, collaboro da anni e tra noi c’è una grande fiducia e intesa scenica. Ho potuto confrontarmi con questa storia che mi ha molto appassionato e che, benché sia molto legata al territorio e ad alcune contingenze storiche, credo contenga elementi che possono essere considerati universali, perché si parla di sradicamento, di appartenenza, di origini. I due protagonisti sono sostanzialmente due persone calpestate dalla storia e dalla politica, sballottate qua e là dai grandi avvenimenti che passano loro sulla testa: le ultime pedine in una scacchiera molto più grande e complessa.
Una voce che non può mancare, a questo punto, è quella da cui tutto avuto origine, l’autore Marco Balzano.
Marco, da dove è partita, all’epoca, l’idea di intingere la penna in questo spaccato di mondo e in uno dei momenti più controversi della sua storia e della sua identità?
Ero in vacanza con la mia famiglia in Alto Adige. Ho sbagliato strada, sono finito in questo piccolo paese e ho visto il campanile che galleggiava sull’acqua. Mi è sembrata subito un’immagine potente, di grande forza evocativa. Io sono abituato a partire da un’immagine che condensa una storia; è nata così l’idea di riportare a galla quel paese sommerso. Mi sono poi reso conto che non avrei potuto raccontare la storia di quel luogo senza includerla nella storia più ampia dell’Alto Adige, di un territorio di confine la cui storia è stata spesso violentemente rimossa dal racconto pubblico e dai libri di testo.
Il romanzo è denso di temi intrecciati: dal dramma famigliare alla questione dell’identità di popolo, dal conflitto tra individuo e potere alla decisione di restare piuttosto che di “optare”. In definitiva, è un testo che parla di decisioni subite e degli strenui tentativi di resistenza, anche emotiva, anche morale, dei singoli. Cosa ne resta?
Come dice Manzoni, per scrivere una storia ce ne vogliono due. In “Io resto qui” c’è la narrazione di un dramma famigliare, più intima, che avviene però in una cornice storica molto forte. Si parla di “restare” e di “resistenza”. Nei tre romanzi precedenti avevo raccontato di gente che se ne va. Penso che la migrazione rispetti il legittimo diritto di ciascuno di noi di costruirsi una sorte migliore, ma mi sembra altrettanto importante – anche determinante per il benessere di una società e di un sistema – provare a restare e a cercare di cambiare le cose “dal di dentro”. Volevo dunque una protagonista che avesse i piedi ben puntati a terra, nella sua terra, anche quando sotto i piedi non ha più la terra ma l’acqua.
La trasposizione drammaturgica di Francesco Niccolini ha dovuto, giocoforza, operare delle scelte tematiche…
Sono stato subito d’accordo con la direzione intrapresa da Francesco, perché ho immediatamente riconosciuto in lui, così come nei due attori Arianna Scommegna e Mattia Fabris, un profondo rispetto del testo, che si è tradotto in un rispetto delle intenzioni più nevralgiche di ciò che io ho voluto comunicare, nonostante i tagli. In generale non ho un’“idea “sacra” di nessun testo, so benissimo che se si cambia linguaggio, se si passa ad un altro codice di comunicazione, necessariamente alcune cose vanno cambiate anche dalle fondamenta: alcune non entrano – ed è bene che non entrino – altre entrano con un vestito e a volte anche un corpo completamente diverso. Questo non mi lascia male, non mi scandalizza, anzi: mi mette alla prova.
[Alessandra Limetti]
















































































































































































