Johanna Porcheddu, la profondità del palco
L’attrice-regista: “Merano ha bisogno di un teatro di produzione in italiano”
Johanna Porcheddu, attrice e regista, è uno dei nomi storici della scena teatrale meranese.
Oltre ad aver interpretato decine di spettacoli, nel 1990 ha fondato assieme a Giorgio Degasperi, Peter Oberdörfer e Karin Wallnöfer la compagnia Theater in der Klemme. Andiamo a conoscerla da vicino.
Johanna, lei è perfettamente bilingue e ogni lingua ha propri modi, limiti e potenzialità. Questa sua “duplicità” l’ha aiutata nel portare in scena differenti personaggi?
L’abitare due lingue implica sicuramente la necessità di confrontarsi in maniera particolarmente attenta con l’espressione e il significato delle parole. Credo dunque che l’essere mistilingue abbia contribuito al mio interesse per la lingua, specificamente per quella parlata. Non ho poi avuto mai preferenza per una delle due lingue, coltivandole entrambe, e forse questa abitudine a vivere in due realtà espressive differenti mi ha facilitato nell’interpretare altre identità, ovvero i personaggi che porto in scena. Devo anche dire che quando lavoro in lingua tedesca mi è capitato di dovere tenere a bada la mia italianità, che emerge da un punto di vista prosodico. Non mi capita però il contrario, cioè quando recito in italiano.
Pensando ad un personaggio del teatro di entrambi i contesti linguistici, ha qualche particolare preferenza?
La domanda è difficile. Quando reciti devi amare il tuo personaggio, creando adesione e prendendone le parti come ne fossi l’avvocato difensore. Questo deve avvenire anche quando lo spettacolo non ti piace o non è nelle tue corde. Sono legata ad alcuni particolari testi ma, per non tradire gli altri, non mi sentirei di citare nessun personaggio in particolare. Di caratteri non interpretati, però, posso dire di essere affascinata e intimorita dal personaggio di Medea.
Il mestiere dell’attrice eleva ad arte la capacità di esprimersi, massimizzandone l’efficacia e la capacità di “colpire” il destinatario del messaggio. Le chiedo se nella vita quotidiana le capiti di dover controllare questa forza espressiva.
Recitare non ha a che fare con la finzione, se non per il contesto in cui questa attività si svolge. Portare un personaggio in scena significa vestirne i panni e viverne l’esistenza con assoluta sincerità. Nel mio cervello non c’è distinzione tra recitazione e vita, anche se ciò non significa che io non distingua e abbia consapevolezza della differenza tra i due ambiti. Sicuramente in me c’è una predisposizione per ciò che riguarda l’esposizione, il linguaggio e lo stare in scena, ma non penso alle mia capacità come ad un’arma e non credo, almeno consapevolmente, di approfittare delle mie competenze di comunicatrice nel rapporto con gli altri.
Nella città di Merano, dove lei vive e lavora, di che tipo di teatro crede ci sia bisogno?
Di un teatro di produzione in lingua italiana e, in secondo luogo, di un teatro misto che provi veramente a mischiare le due culture e i due modi di fare teatro. Sarei proprio curiosa di vedere quali sarebbero gli esiti di questo incontro, che, a pensar bene, non è così bizzarro, visto che è la società stessa che ha questa composizione. Pensando alla provincia tutta credo che lo stato di salute del teatro sia piuttosto buono: in ambito tedesco, anche nei piccoli comuni, abbiamo tante e vivaci compagnie di teatro, seguite da un pubblico numeroso. Non mancano le sperimentazioni e le novità, e sono contenta di veder crescere con forza il Teatro Stabile di Bolzano, che si mostra di rilevanza nazionale ma attento ai giovani e agli attori locali.
Quanto ai temi, crede che il teatro contemporaneo si mantenga coraggioso?
Rispetto agli anni della contestazione c’è stato un certo intiepidimento. Vero è anche che adesso è diventato difficile provocare: cos’è nuovo? Cosa provoca? Cosa scuote le nostre coscienze? Non dimentichiamo che la realtà altoatesina gode di un certo benessere e non abbiamo l’urgenza di mettere sottosopra nulla. Internet e la televisione sono piene di tutto e a tutto siamo abituati, tanto da non venire più sconvolti da nulla. Grazie alla presenza umana, però, il teatro è ancora in grado di provocare. La parola tedesca Fremdschämen, che in italiano potrebbe tradursi con “vergognarsi per l’altro”, descrive il modo in cui il teatro colpisce gli spettatori, che provano vergogna nella misura in cui si sentono tirati in ballo. La presenza fisica dell’attore, la capacità di smuovere i sentimenti del pubblico sono sono ciò che rendono magico il teatro.
[Mauro Sperandio]