Allo Stabile si sentono “rumori fuori scena”
Intervista al regista-attore Valerio Binasco: “Oggi c’è bisogno di commozione”
Uno “spettacolo sullo spettacolo”, potremmo dire, il “Rumori fuori scena” che il palco del Teatro Comunale di Bolzano ospiterà dal 5 all’8 dicembre.
Per la regia di Valerio Binasco, tra gli interpreti assieme a Fabrizio Contri, Milvia Marigliano, Nicola Pannelli, questo testo dell’inglese Michael Frayn racconta la preparazione di uno spettacolo da parte di una scalcagnata compagnia di attori, mettendo a nudo le loro personalità e il gioco d’equilibri che sottostà alla vita di una compagine teatrale. Attraverso imprevisti, crisi, bisticci e riappacificazioni, si arriverà fino al giorno della prima… Incontriamo Binasco per parlare di equilibri teatrali e non.
Come si dosano tragico e comico nella rappresentazione di un testo teatrale?
Quando si mettono in scena dei drammi che sfuggono ad una classificazione precisa di genere assistiamo a qualcosa che assomiglia molto alla vita e dunque al continuo mischiarsi e alternarsi di tragico e comico. Se pensiamo a due figure eminentissime, quali quelle di Euripide e Shakespeare, non possiamo che notare la loro capacità di mischiare il tragico con momenti di grande leggerezza. Nelle commedie, invece, possono esserci grandi momenti di malinconia. Ogni evento umano può suscitare ad un tempo ilarità e commozione. Ci sono autori che hanno voluto percorrere fino in fondo la strada della tragedia - penso a Racine - o della commedia, come Feydeau. Un tempo questi “assoluti” mi avrebbero sconfortato, ma ora sono curioso di confrontarmi con una farsa pura, che non vuole essere altro.
Qual è dunque la misura di questo equilibrio?
Siamo noi attori, che, un po’ di nascosto e un po’ involontariamente, possiamo contrabbandare qualche elemento che ci riporti alla nostra un complessa condizione di perfetti contenitori del disequilibrio tra tragico e comico.
Crede che il suo modo di recitare sia adeguato oppure opposto ai mutamenti sociali a cui ha assistito nella sua vita?
Non lo so. Il mio approccio non è mai sociologico, ma psicologico. Se come artista ho un difetto importante è sicuramente quello di non aver molto sviluppate le “antenne della contemporaneità”, mentre ho forse talento nel cogliere la stratificazione e la complessità degli eventi psicologici. Questo fa sì che, trovandomi a rappresentare la società odierna, non posso non rilevare un’insicurezza diffusa, che trasforma in rabbia il sentire di molte persone. L’insicurezza di cui parlo non è certo quella che cavalca una certa parte politica e che riguarda la proprietà privata o l’integrità identitaria della nazione. Mi riferisco invece allo stupore di fronte ai rapidissimi e radicali cambiamenti che interessano tutto il mondo, e che non possono non scuoterci. È facile che i timori generati da questa evoluzione possano venir camuffati con comportamenti rabbiosi o fortemente assertivi, anche se spesso leggo paura negli occhi delle persone.
Come si riverbera questa percezione nel suo lavoro?
Come artista mi rendo conto di percepire questa situazione e di esserne pure parte. Come “raccontatore” sento di avere un grande bisogno di narrare la storia degli uomini con uno sguardo intenerito, pietoso. Credo che al giorno d’oggi ci sia bisogno di commozione. Desidero raccontare l’antica canzone dell’amore per l’umanità, anche se non se forse non lo merita. Ho voglia di fare un teatro che consoli, porti gioia e divertimento. Un teatro che non punta il dito, ma allarga le braccia, non per arrendersi, ma per abbracciare.
Regista e attore. È facile far convivere in se stessi le due professioni?
Il regista ruba tempo alla professione dell’attore, attività che richiederebbe molta dedizione, calma e furore allo stesso tempo. È un lavoro difficile che si fa accogliendo in sé molte contraddizioni, studiando con precisione millimetrica. Far bene l’attore richiede una quantità di fatica notevole, non solo fisica o mentale. Il me regista, da par suo, scalpita, è nervoso, inquieto, insicuro, impaziente. Si occupa volentieri degli altri attori e della messa in scena e trascura un po’ il me attore. Tuttavia i due me sono ormai abituati a convivere: l’attore sa che se la caverà ugualmente, anche se il regista è un po’ ingombrante.
Cosa le fa fare questo sforzo di mediazione?
Non sono innamorato dell’arte o del mestiere dell’attore, lo faccio per vocazione, quasi non potessi farne a meno. Quando sono in teatro a recitare, sento nell’anima di essere a casa. Una casa che il regista ha costruito.
[Mauro Sperandio]