Manuel Randi, il “nomade” torna a casa - Il versatile chitarrista bolzanino in concerto l’11 gennaio all’Hotel Laurin
Non si fa a tempo a entrare dal fondo del teatro bolzanino dove sta provando, al basso per l’occasione, il concerto di presentazione del nuovo cd del suo amico Marco Delladio, che lui si sbraccia a salutare dal palco.
Manuel Randi, uno dei più versatili chitarristi altoatesini in circolazione, nonostante la conquista di una buona notorietà oltre Brennero suonando nell’Herbert Pixner Project, non perde certo il contatto con il territorio che l’ha visto crescere, la famiglia, gli amici e il divertimento che deve sempre animare chi vive di musica. La sera dell’11 gennaio, alle 20.30, è atteso al Laurin di Bolzano per suonare le musiche gitane di Django Reinhardt, oltre a cose proprie tratte dai suoi ultimi lavori New Old Songs e Toscana, insieme a Francesco Zanardo (chitarra), Fiorenzo Zeni (sax) e Marco Stagni (basso).
L’approccio alla musica che hai avuto tu da giovane sarebbe ancora vincente oggi nell’era della tecnologia?
Non c’era nulla di tecnologico, al di là dei dischi e delle audiocassette. Per imparare l’assolo di Smoke on the water lo dovevo ascoltare mille volte, un processo lunghissimo che con l’attuale disponibilità di tablature puoi omettere del tutto ma che a me ha allenato l’orecchio, cosa che in seguito mi ha fruttato un sacco di facilità e tanti complimenti. All’inizio sono stato clarinettista, ho ascoltato musica classica ma anche il metal degli Iron Maiden. A un giovane direi che la tecnologia è pratica, ma la maniera in cui ci si nutre dovrebbe essere a contatto con la natura o con un musicista che suona davanti a te, come confermano i risultati ottenuti da certi bimbi col flamenco. L’altro consiglio è di suonare andando dietro alla radio, qualsiasi tipo di musica stia passando.
Ti identifichi molto in Paco de Lucia ma resti musicalmente nomade: pensi che la cosa ti penalizzi?
De Lucia per me non è né Entre dos aguas, né Friday Night in San Francisco, Paco è collegato al flamenco, genere che ascoltava mio padre e con cui sono certo cresciuto, sentendo dagli Intillimani a Paco Peňa. Il flamenco ha una ricchezza incredibile che mi riporta al mondo arabo, al suono dell’oud, un discorso complesso. Sento come un bambino tantissime cose, ultimamente Megadeth, musica classica, bebop anni ’40, Parker e Gillespie pur non ritenendomi un jazzista: non c’è un concetto in quello che faccio. La profondità la incontro a casa mia da solo e non credo che i generi musicali siano mai esistiti. Toscana per esempio è il mio primo disco di canzoni, dove tutti i pezzi stanno in piedi con pochi assoli di chitarra.
Questa “musica alpina” che fate con il gruppo di Herbert Pixner non potrebbe invece essere più aperta ad altre regioni che insistono sull’Arco come Francia, Svizzera, Italia, Slovenia?
Suoniamo solo pezzi suoi: Herbert arriva con le idee e dirige la musica ma non ti dice più di tanto. Si lavora con pochi accordi per via che lui compone con l’organetto diatonico. L’influenza alpina c’è ma non è che ci pensiamo come prima cosa. Di italiano non ascolto nulla, quando sei in Germania ti accorgi di quanto quaggiù siamo rimasti indietro, persi dietro a una musica non buona e a coltivare il mito che la musica non si paga.
Suoni molto, vivi di musica: ti piacerebbe entrare nel giro dei musicisti milionari?
No perché ho trovato un buon compromesso che mi permette di crescere quattro figli, con mia moglie che mi supporta molto. Nei weekend si suona e poi ci sono i giorni per stare a casa. Il futuro di musicista dipende da come sei sul palco: devi sempre dare il massimo e non pensare all’incertezza tipica di questo lavoro.
[Daniele Barina]
Manuel Randi, 42 anni: “Il futuro di musicista dipende da come sei sul palco: devi sempre dare il massimo e non pensare all’incertezza tipica di questo lavoro”.