Il giornalista con la passione per il jazz
Luca Masiello si racconta: dagli esordi hard rock all’incontro con Lucio Dalla
Ha 49 anni “suonati”, nel senso che ha trascorso gran parte della sua vita davanti a un pentagramma: Luca Masiello, brissinese, giornalista professionista e responsabile del quindicinale QuiMerano, è un cantante e compositore che si definisce “un jazzista prestato al rock”.
Ciò non solo in relazione ai suoi trascorsi ma anche per il suo persistente flair di proporre cover di celebri brani rock e pop contaminandoli con le movenze tipiche del jazz o comunque delle forme cui questo tradizionalmente attinge.
Che cosa significa sentirsi in prestito tra questi due ben definiti generi?
Sono nato e cresciuto con il jazz, in casa mia si respiravano gli standard sin da piccolo, ma ero chiaramente incuriosito dai suoni distorti di quelle Gibson che venivano usate in maniera decisamente diversa da come le faceva suonare Wes Montgomery. È anche per questo che ho mosso i miei primi passi nel mondo della musica dal vivo quando ero ancora un adolescente nel mondo dell’hard rock: come cantante e come chitarrista.
Ma poi hai preso la strada del jazz. Qual è per te l’irrinunciabile magia di questa musica?
Il senso di libertà che ti infonde, come ascoltatore ma soprattutto come cantante; lo scat è uno stile vocale che ti permette di utilizzare l’ugola spaziando fra le note senza limiti, la voce diventa quello che in effetti è: uno strumento capace di produrre melodie e ritmiche; non c’è bisogno di parole, le emozioni e il messaggio che si vuole lanciare al pubblico viene recepito in maniera spontanea. Uso lo scat quando suono con le varie formazioni jazz di cui faccio parte, ma mi piace “contaminare” altri generi: con la mia band, la “Bad Experience” (Bob Motta-batteria, Marco Scippacercola-basso, Markus Denicolò-chitarra e Max von Pretz-tastiere) in cui canto e suono l’armonica, rielaboriamo brani rock e pop in versione rockabilly ma con moltissime sfumature jazz; i miei scat, in primis: se il chitarrista può fare un assolo, perché non lo può fare il cantante? Non abbiamo inventato niente, sia chiaro: c’è stato il grande Lucio Dalla, molto prima di me, a “popolarizzare” il jazz e soprattutto lo scat nel pop.
Quella di Dalla è una perdita enorme per la musica italiana, non trovi?
Già. Sono trascorsi quasi dieci anni dalla sua morte ma a lui qualche tempo prima è legato il ricordo del momento musicale più felice della mia vita. Suonavo con il bassista Saro Scaggiante, brissinese a sua volta e amico da una vita, eravamo autentiche fucine di pezzi: ne componevamo uno al giorno, pazzesco. All’epoca andava il grunge, e noi avevamo registrato una ventina di cose in questo stile, mettendoci dentro un po’ di funky e hard rock old school. Con la cassettina in mano e la faccia tosta dei vent’anni siamo approdati alla corte di Lucio Dalla. Abbiamo vissuto a Bologna un annetto, con il produttore interessatosi abbiamo rivisitato tutti i nostri pezzi per renderli - diciamo così - “radiofonici”, sgrezzarli, e poi abbiamo registrato l’album. Che però non venne mai pubblicato per problemi interni alla casa discografica. Peccato, perché eravamo bravi: qualcuno del settore aveva definito la nostra musica “come un rutto dopo una birra fresca”. Fa ridere, ma era un complimento: non so cosa darei per ritrovare quella spontaneità nel comporre. Comunque vivere da musicista professionista e lavorare con grandi personaggi delle sette note è stato a dir poco formativo.
Tu quale filone all’interno del variegato mondo del jazz prediligi? Cosa ascolti prevalentemente?
Dipende molto dal periodo, ma se dovessi identificarmi in un genere, non posso che citare il Bebop. Quei ritmi adrenalinici, quelle cascate di note che si appallottolano fra di loro, quegli assoli aerei… Se avessi la macchina del tempo la userei per catapultarmi al Minton’s Playhouse nel 1950 per bermi un whisky con Charlie Parker.
In provincia di Bolzano come vedi la realtà di genere, stimi o collabori con altri nomi della scena?
Suonare con il batterista Roman Hinteregger (fra l’altro mio maestro alla scuola di improvvisazione jazz) o con il contrabbassista Norbert Dalsass mi dà sempre tanta gioia. Così come amo le mie collaborazioni con Massimo Zaccari (chitarra) o Stefano Galli (piano). Il jazz è un genere elitario, alla fine non siamo in moltissimi a suonarlo ma quelli che lo fanno sono davvero bravi. Pensandoci bene credo che alla fine noi jazzisti altoatesini ci siamo incontrati un po’ tutti sul palco, negli ultimi due decenni...
Cosa ne pensi dei festival di genere in provincia di Bolzano, ti chiamano a volte?
Il Jazzfestival è un’ottima occasione di crescita per tutta la provincia. Il pubblico, anche quello che normalmente non ascolta questo genere, se ne sta accorgendo e me ne rallegro. Fino a qualche anno fa facevo sempre un paio di date ogni estate, poi gli organizzatori hanno avuto la fortunata idea di dedicare ogni edizione ad un’area geografica precisa, quindi sono finito fuori target. Almeno finché non ne dedicheranno una all’Alto Adige...
Progetti futuri legati alla tua musica?
Ho passato gli ultimi due anni, quelli “pandemici” per intenderci, a studiare. Ho fatto un paio di date, ma più che altro ho trascorso tutto il tempo che normalmente passavo sul palco a casa, a comporre e a migliorarmi. Ho voglia di esplorare altri generi, tuffarmi in altre dimensioni, magari – chissà – anche nell’elettronica.
[Daniele Barina]