Hubert Dorigatti ha detto “Stop”
Secondo cd del cantante e chitarrista che il 26 novembre si esibirà al Laurin
Più Eric Clapton che Gary Davis, il bluesman locale Hubert Dorigatti è giunto al secondo cd, dopo l’album “Memphisto” del 2018. Con “Stop” (Appaloosa Records), il cantante e chitarrista si è riproposto quest’anno firmando una dozzina di nuovi brani che promuove dal vivo il 26 di questo mese al Laurin di Bolzano. Ad accompagnare il suo “blues di montagna”, diversamente da quanto annunciato, saranno l’armonicista Fabrizio Poggi, la cantante Laura Willeit e il bassista veneto Giacomo Da Ros impegnato anche ai cori. Il sogno nel cassetto dell’artista rimane trovare un vero produttore esperto del genere che sappia consigliarlo, anche se a sentirlo non si direbbe averne tutto questo bisogno.
Anno 2021: si riesce a campare di solo blues in una delle province più ricche d’Italia? E, a proposito, dove vivi?
Sono di Brunico ma ora vivo a Pieve di Marebbe, in Val Badia. Sono per metà insegnante di musica, altrimenti sarebbe difficile sopravvivere, meno male che il lavoro mi piace. Ho potuto anche smettere di fare matrimoni...
All’inizio era la tromba: come sei poi arrivato alla chitarra?
Ho fatto la scuola media in collegio a Novacella, già suonavo la tromba nelle bande come d’uso in Pusteria, e là c’era la stanza musicale, con bassi, chitarre elettriche, altri strumenti e così mi sono incuriosito. A quindici anni ascoltavo il rock, gli ACDC per esempio, con amici più grandi. Poi sono andato a Vienna a fare un corso di jazz ma il blues non mi ha mai mollato...
Un mio amico dice che non ha senso fare il blues se sei nato con canederli e salsiccia sempre fumanti nel piatto e ricevi un contributo provinciale per tutto, anche per incidere dischi. Tu come la pensi?
Dico al contrario che ha assolutamente senso, non voglio essere legato per forza al paesaggio in cui vivo io, ho girato il mondo per conoscerla questa musica perché è una mia grande passione, non è questione di dove vivi. Mi hanno chiesto più volte perché non scrivo cose in dialetto sudtirolese, ma io rispondo proprio no: forse lo farò a novant’anni!
Sul tuo sito web c’è una bellissima foto con Herbert Pixner: a lui però è riuscito e andato a genio di proporre una musica più glocal...
Infatti non canta e alla musica strumentale può riuscire meglio d’inglobare il folk tirolese in una proposta che riesca anche a esulare da quel contesto, diventando così qualcosa di nuovo e, nel suo caso, molto bello.
A quale tipo di blues ti senti legato in particolare?
Il mio pallino è per il blues delle origini, quello americano proprio fatto come tradizione vuole, per poi cambiarne un po’ il registro ma senza mai uscirne del tutto. All’inizio ascoltavo Blind Boy Fuller, Blind Lemon Jefferson, Robert Johnson, il blues acustico del Delta, in stile fingerpicking e slide, un po’ il country-blues. Amo molto meno il blues elettrico che si suona più a nord, quello di Chicago. Oggi m’ispira in particolare Eric Bibb che porta avanti la tradizione a me più cara, arricchendola di nuove armonie e uscendo un po’ dalla forma delle dodici battute. Proprio quello che vorrei fare io.
Nel comporre le tue canzoni, prevale la nostalgia per i luoghi che abbiamo rovinato definitivamente o cerchi di guardare solo agli scorci idilliaci che ancora resistono?
Buona domanda, ma credo prevalga il bello come tematica di fondo, i boschi e le malghe, non faccio grande tema di tutto ciò che abbiamo distrutto. Voglio dare una visione positiva al mio blues! D’altronde sono bianco e, anche se prendo le radici e me le studio, tale resto. Afroamericani, quando ho suonato a Memphis, mi hanno infuso tanto coraggio, dicendo che faccio belle cose e di andare avanti: non conta se sei cinese, sudtirolese o americano.
Sei l’unico madrelingua tedesca che quando canta in inglese non ci si accorge che è tedesco...
Mah, avevo un talento per le lingue a scuola, poca grammatica ma una buona pronunciation, così come anche oggi se sento due o tre volte un dialetto comincio già un po’ a parlarlo.
Nel 2017 hai vinto la selezione nazionale che porta al contest internazionale di blues negli Stati Uniti: com’è andata?
A Memphis ci sono tre giorni di festival, un solo musicista per Paese e io per l’Italia, un’esperienza micidiale. Ho stretto contatti, ho conosciuto molta gente, ho suonato: davvero fantastico!
[Daniele Barina]