Le mitiche donne di Anita Pichler
Intervista a Ulrike Kindl, che collaborò con la scrittrice scomparsa nel 1997
Ci sono storie eterne e libri che meritano di essere letti e riletti. Le prime hanno la capacità di raccontare “verità sempre vere”, che continuano a informare la vita degli uomini e delle donne; i secondi svelano sempre nuove strade e dettagli. “Le donne di Fanis” di Anita Pichler, edito da Edizioni alphabeta Verlag nella traduzione di Donatella Trevisan, offrono una prospettiva femminile dell’epopea di Fanis.
Incontriamo Ulrike Kindl, germanista e medievalista che affiancò, assieme a Markus Vallazza, la scrittrice Anita Pichler, scomparsa nel 1997, nel lavoro preparatorio di Die Frauen aus Fanis.
Ulrike Kindl, nello studio preparatorio di Le donne di Fanis lei collaborò strettamente con Anita Pichler. Quale ricordo ha di quel periodo?
Semplicemente magico. Era un’esperienza unica – e non si dimentichi che del sodalizio fece parte anche Markus Vallazza: l’aspetto del processo creativo “visivo”, focalizzato sul segno, aveva la funzione di “contra-altare” all’elaborazione del testo narrativo, legato quindi al discorso. Il reciproco compenetrarsi di categorie iconiche (“immagine”) e discorsive (“racconto”) richiedeva un continuo dialogo tra il disegnare e lo scrivere. Ne uscì una “Textur”, un “testo-tessuto”, fili incrociati sotto il minimo comune denominatore della “grafia”, trasformando la poesia densa di Anita Pichler in glifi, e i disegni superbi di Markus in arcanum: es war ein “Erzählen mit dem Zeichenstift”.
I luoghi che fanno da scenario alle storie, nel Gruppo di Fanis, furono meta di alcune vostre escursioni. Come descriverebbe quelle “passeggiate professionali”, se così le possiamo chiamare?
Furono prima di tutto splendide gite in montagna. Eravamo tutte e due esperte montanare, e allora anche bene in forma. Lo scopo delle escursioni non fu però – questo bisogna mettere bene in chiaro – una qualsivoglia ricerca di eventuali tracce “reali” di un presunto “Regno dei Fanes” sprofondato: evemerismi così ingenui li lasciamo ai profeti new age e compagnia cantante… No, volevamo capire come e perché la tradizione popolare avesse ambientato proprio in quei luoghi, veri e reali, i suoi “racconti delle origini” – le leggende di Fanis sono, sotto l’aspetto dell’antropologia culturale, “Ursprungsmythen”, racconti del tipo illo tempore, in altre parole: metafore identitarie.
Il valore archetipico delle saghe dolomitiche trova qui una trattazione che esalta la componente femminile. Come studiosa della materia, crede che questo sia “finalmente accaduto” o pensa che sia una assolutamente legittima scelta letteraria?
In primis, è una scelta letteraria. La struttura recondita dei racconti allude alla fiaba di Dornröschen, la “Bella addormentata nel bosco”, alla cui nascita le dodici fate del reame portano i loro doni, mentre la “tredicesima fata” annuncia la morte.
La celeberrima fiaba (classifica ATU 410) è ubiquitaria e si presta benissimo a strutturare il complesso (e compromesso) racconto attorno al “Regno dei Fanes”; così abbiamo creato le tredici figure-nucleo dell’esperimento, e che siano donne si deve al fatto che sono fata – divinità del destino che nell’immaginario mitico europeo sono immaginate sotto aspetto femminile, Moire – Parche – Norne e quant’altro.
Il lessico di Anita Pichler è materico, corporale, carnale, ma le vicende si svolgono in una dimensione che potremmo dire immateriale. Pensa che questa scrittura moderna ma fuori dal tempo possa essere utile a rinnovare l’interesse per l’epopea di Fanis?
L’epopea di Fanis, come già detto, è un “racconto delle origini”, e in quanto tale “materia” come tutti i grandi miti che delimitano l’ubi consistam delle civiltà che si riconoscono in quelle specifiche tradizioni. Il mito del regno sprofondato sotto l’Alpe di Fanis, per i Ladini è “vero” come la favola di Romolo e Remo per i Romani, oppure la saga di Sigurd per i popoli nordici. Solo che il processo di trasmissione in Europa si basa fin dal primo millennio a.C. sulla scrittura, conditio sine qua non per la nascita del grande patrimonio epico, dall’Odissea ai carmi dell’Edda: tradizioni privi di cultura scritta, prima o poi, o sono passate alle culture egemoniche o hanno rischiato l’oblio. Come abbiano fatto i racconti epici dei Ladini a giungere fino alla soglia del Novecento per pura trasmissione orale, è tuttora un mistero. E non mancano le voci, molto autorevoli, che sono assai scettiche ritenendo l’intera opera di K.F. Wolff una gigantesca congettura, quindi “Kunstsagen”, racconti inventati, in parole povere. Vero è che il Wolff è pesantemente intervenuto nella “materia” grezza, ed è davvero molto difficile capire cosa abbia realmente trovato durante i suoi studi sulle Dolomitensagen.
Comunque: non è questo il problema dell’arte di Anita Pichler; la scrittura moderna può creare solo secondo i parametri della contemporaneità, Le donne di Fanis è un’opera dell’hic et nunc: “Fanes è la mia storia”, dice Anita Pichler nella premessa, mai dimenticare: è la visione della scrittrice, una delle possibili metafore identitarie per “il tempo che viene, e continua a venire, e poi sarà passato”.
[Mauro Sperandio]