Il nuovo inizio di Gabriele Muscolino
L’album dell’artista bolzanino sarà presentato il 24 giugno a Castel Roncolo
Il nuovo disco l’ha intitolato con il suo nome, Gabriele Muscolino, quasi a comunicarci quanto lo senta aderire a se stesso, forse alludendo a un nuovo inizio. Completamente padrone delle proprie scelte, dopo le lunghe esperienze in gruppo con i Soluna e i Nachtcafè, il cantante, autore, suonatore di bouzouki e produttore musicale bolzanino si è ritirato nella casetta delle api di Costalovara per trarne ispirazione e, con essa, una manciata di canzoni.
Una selezione felice, anche a giudicare dall’interessamento del grandissimo Riccardo Tesi, uno dei re dell’organetto diatonico in Europa, che l’ha voluta pubblicare per la sua casa discografica, la Visage Music di Prato (per acquisti, https://www.visagemusic.it/prodotto/gabriele-muscolino/). Il disco che sarà presentato il 24 giugno a Castel Roncolo, si avvale dei contributi di Angelika Pedron (voce), Lorenzo Barzon (violino), Luca Pasqual (violoncello), e in qualche traccia, ospita le fisarmoniche di Martin Tourish (della band irlandese Altan) e di Matteo Facchin.
Mi sembra che la voce invecchi bene… Hai dovuto cercarla o è una cosa naturale cui non serve nemmeno più stare attenti?
Entrambe le cose. Da una parte c’è il portato dell’età che non mi consente più di arrivare dove riuscivo una volta, ma è anche una scelta stilistica, nel senso che ho rinunciato volutamente ai toni alti perché intendevo fare un disco “da camera” e le tonalità più basse si addicevano meglio allo scopo. Non sono un grande amante delle cose troppo gonfie, mi piace piuttosto togliere, andare verso il basso anziché verso l’alto. Così con la voce che, nel tempo, ho imparato a non sforzare. Questa volta poi l’ho curata, mi sono preso il tempo per registrare le parti vocali che altre volte, tipo in due dischi che pur ritengo riusciti con i Nachtcafè, mi erano parse carenti sul piano dell’espressività, spero di esserci riuscito.
L’immaginario delle storie che narri è un mondo che esiste davvero o che scorgi vedendo attraverso fenomeni che i più non notano, o viceversa peschi dal paradiso degli archetipi in cui sei cresciuto?
Per me è ovvio che tutto quello che uno scrive, pur non direttamente magari, sia autobiografico nel senso che è filtrato dal tuo modo di osservare il mondo che non può essere che il tuo. Magari una riflessione nasce da una storia di fantasia, come la ballata Gli esploratori dove quattro di loro fanno il giro del mondo per andare in Catai, in Cina. Dentro ci rifluiscono tante cose personali anche in questi casi. In Paradiso, provo invece a immaginarmi quello che rappresenta per me e, penso, per molti altri: un’età dell’oro dell’umanità che tutti vorremmo rivivere, un mondo in armonia con la natura e con gli altri, fatto d’innocenza, una dimensione che la vita ci concede solo a sprazzi. Un mito dei primordi, già trattato molte volte in musica e che davvero mi affascina, cui volevo in origine addirittura intitolare il lavoro.
Musicalmente? Un po’ Tom Waits, un po’ country…
Waits ha un timbro fantastico, scava molto nella voce, come Johnny Cash nei suoi ultimi lavori. Non è dichiaratamente un concept album questo mio ma un po’ finisce per esserlo musicalmente, una specie di nuvola di suono, una line-up di bouzouki, violino e violoncello che ammicca molto alla musica americana e anglosassone, è un disco folk che vorrebbe fondere il cantautorato italiano con queste realtà. Sto ascoltando molta musica acustica americana, tipo The Milk Carton Kids che sono mostruosi e mi sembrano i nuovi Simon & Garfunkel…
Prima la tua proposta rappresentava un buon punto di equilibrio tra influenze celtiche e mediterranee: cos’è accaduto?
Giusto, è vero che negli anni scorsi con strumentari diversi, contrabbasso e pianoforte, una duttile fisarmonica, in gruppo abbiamo in effetti evocato anche i suoni del Mediterraneo, ma questa volta andiamo in una direzione ben precisa. Forse la suggestione che ho cercato è nata da un massiccio ascolto anche in epoca recente di quel genio di Nick Drake, una capacità unica di creare atmosfere, spesso con chitarra pizzicata e archi, un po’ l’assetto che ho cercato anch’io. In un pezzo ho proprio inserito dei passaggi armonici che sono volutamente un omaggio alla sua grandezza.
Pur parlando di un’uscita colta e raffinata, cantautorale, mi pare di poter dire che non usi fiumi di parole ma hai fatto tua la brevità di versi classica delle canzoni più leggere?
Sì, perché se il rap nasce dal testo e piega poi il ritmo a quell’esigenza, nel mio caso le cose funzionano al contrario: comincio sempre da una melodia e poi va a finire che le parole rimangono schiave di questa, non parto dagli endecasillabi per poi adattare la musica. I versi sono a volte molto brevi, non propriamente tipici, novenari, proprio perché costretti dalla musica che è nata prima. Ho appunti da parte in un quadernetto, osservazioni che ti vengono, note a margine di libri che leggo: vedo poi a quale di queste tematiche accennate corrisponde meglio la musica che mi è venuta in mente…
[Daniele Barina]