Petra Dotti, alias i Giardini di Pietra
Il 22 ottobre concerto (con degustazione) della cantautrice a Castel Mareccio
Bolzanina d’origine, bolognese da quando ha diciannove anni, la cantautrice Petra Dotti, vale a dire "I Giardini di Pietra", è reduce da un’estate di fuoco: tra Sanremo Rock e date dal vivo, per non dire della pubblicazione dei singoli tratti dal nuovo lavoro che sarà distribuito in forma immateriale dalle migliori piattaforme digitali.
Raffinata nella scrittura e nell’uso della voce, la sua proposta evoca modelli colti senza mai eccedere, la sua energia ce li rende familiari: due qualità che si potranno riscontrare presto, il 22 ottobre, quando suonerà a Bolzano in un concerto con degustazione nella prestigiosa cornice di Castel Mareccio (biglietti su www.38d4a183a2451432f972778eabadb898-gdprlock).
Il disco che ci ha fatto conoscere I Giardini di Pietra, Pneuma, ha un gusto electropop: la caratterizzazione in tal senso dei pezzi continua?
Il cd è uscito nel 2017, poi nel 2019 ne è seguito un altro più acustico Ora e qui, segno che I Giardini di Pietra più che un gruppo sono un project che prevede cambi di formazione e d’atmosfere tra l’attività in studio e quella sul palco, dunque tra elettronica e musica unplugged. Quest’ultima, proposta dal vivo, è arricchita da strumenti non così usuali come arpa, sax e violino. Il lavoro era pubblicato su piattaforme digitali ma l’ho ritirato, faccio uscire di nuovo i singoli appoggiandomi a DistroKid che li carica su duecentocinquanta canali diversi di streaming online. Ogni volta che mi hanno chiesto che genere facevo, non sapevo mai cosa rispondere e ci ho pensato su. È perché non scrivo per fare un pezzo funky o electro o cantautorale, scrivo e basta poi il brano fa quello che deve fare. I pezzi hanno un’anima e portati fuori dallo studio, sia con strumentisti dal carattere deciso, sia se li canto solo io con la chitarra, funzionano di loro.
Piace Björk o mi sbaglio?
L’ho ascoltata tantissimo, è forse l’unica cantante per cui ho perso davvero la testa, ci sono poi riferimenti italiani come Cristina Donà: a suon di ascoltarne le musiche, senza mai tentare di emularle, la loro cifra salta comunque fuori spesso nelle mie canzoni. Non andrei tanto più indietro nel tempo con i modelli di canto e scrittura, anche perché inizialmente il mio ambito d’interesse era un altro, infatti ascoltavo e scrivevo brani rap, mi piacevano Frankie Hi-Nrg MC, Kaos One, Lugi o i Messaggeri della Dopa, i giochi di parole che caratterizzano il genere ai suoi massimi livelli. Dopo è stata la volta della poesia, Pablo Neruda in testa per il suo modo di cogliere la passione e la natura, quest’ultima come riflesso potentissimo e straziante dei moti del suo animo. Direi che nella scrittura ho modulato entrambe le influenze giovanili, anche se poi le mie poesie le traducevo in inglese per poterle cantare in formazioni musicali. Devo a Carmelo Giacchino, nel 2015 ai tempi della registrazione di Pneuma, l’impulso a cantare in italiano, lingua che non abbandonerò più.
Molti credono di non riuscire nemmeno a cantare se non in inglese: com’è stato lo switch?
L’italiano è più difficile, ha una musicalità diversa, è duro il lavoro di rendere le parole piacevoli all’orecchio ma doveroso a fronte dei testi che sento ogni tanto, autentiche sberle in faccia che prescindono dall’ascolto di come le parole suonano insieme e dalla scelta del termine giusto. Io ho sempre il dizionario accanto, non mi spaventano i termini ricercati.
Che esperienza è stata quest’anno quella di essere chiamati al Sanremo Rock Festival?
Invitati a mandare un brano, siamo stati ricontattati e, non sapendo noi definirci come genere, ci hanno infilato nel rock che, dal vivo, è comunque un po’ la nostra attitudine, un mood alla Carmen Consoli o alla Paola Turci per intenderci. Si suona dal vivo e io l’ho fatto con tre musicisti di Bolzano, Francesca Bolognese all’arpa, Giorgio Folino al sax e Lorenzo Barzon, in questo caso al basso anziché con il suo violino, oltre al bolognese Mario Impara alla batteria, gli stessi del tour di settembre che ha toccato La Spezia, Portovenere, Bolzano e altre località...
Una nota positiva e una negativa sul Festival?
Bella l’atmosfera che si crea lì, perché parallelamente al concorso hanno questa collaborazione con un locale, il Mameli nei paraggi dell’Ariston, dove gravitano per una settimana tutti i musicisti, esibendosi e facendo jam sessions, conoscendosi tra di loro. Dà l’impressione di trovarsi a un campo estivo di musicisti, è un’esperienza di comunità dove suonare con gli altri può far nascere collaborazioni interessanti. Il limite è un po’ organizzativo, anche perché hanno dovuto riprendersi da un fallimento, così che sei sulle tue spese nei vari step del concorso, ci sono spesso ritardi e cambi d’orario. A detta degli operatori economici della zona stanno comunque migliorando di anno in anno e non è poco visto l’enorme lavoro di gestire duecentocinquanta band per distillarne venti.
E di organizzazione di eventi musicali mi pare tu ne sappia qualcosa: non sei dietro al programma di Villa Ghigi a Bologna?
Quattro anni fa con mio marito cuoco abbiamo vinto il bando per ristrutturare la casa del custode della villa del ‘500, così con la Bologna Estate del Comune l’abbiamo aperta a una ventina di eventi musicali l’anno perlopiù incentrati sui musicisti locali che come sai quaggiù non mancano: si mangia, si ascolta e ci si gode il meraviglioso parco.
[Daniele Barina]