Una vita per il pianoforte
Intervista a Carlo Grante, docente al Conservatorio di Bolzano
Da alcuni anni un pianista di fama mondiale, Carlo Grante, insegna presso il Conservatorio “Claudio Monteverdi” di Bolzano. Un uomo di una cultura musicale e filosofica profonda, considerato dalla stampa specializzata un grande musicista che spicca per le sue qualità interpretative.
Siamo andati a trovarlo a Merano, dove Carlo Grante, abruzzese di origine, vive in compagnia dei suoi magnifici cani.
Carlo, come hai scoperto la musica? E il pianoforte?
I miei genitori mi regalarono a Natale un Hit Organ Bontempi. Questo strumento permetteva di suonare le melodie su una tastiera e le armonie su tasti posti al lato sinistro, facendo sviluppare in me il primo senso armonico funzionale. Così è iniziato il mio amore per la musica. Il pianoforte entrò in casa mia per volere di mia madre. Emanava un senso di calore, come una stufa… Con l’aiuto di mia sorella imparai a leggere la musica e cominciai a suonare da autodidatta, seguendo i dischi. Poi venne il Conservatorio.
Chi è stato il tuo primo maestro?
La persona che per prima ha creduto in me come pianista professionista è stata un’allieva di Alfredo Casella, Liliana Vallazza. Mi convinse a diventare un pianista, un musicista nel senso “eroico”, nel senso di vate. Per Vallazza la tecnica pianistica veniva dal saper solfeggiare e intonare ogni nota prima ancora di dover toccare il tasto. Non lo capivo ancora da ragazzo. Me lo spiegò meglio una leggendaria docente russa, Alice Kerzeradze-Pogorelich. Secondo la sua scuola, l’integrazione tra orecchio interno e gesto coreografico-tecnico è combinata con metodi scientifici, mentre quella di Vallazza è più legata a quella che negli ambienti busoniani viene chiamata psicotecnica. Questa donna mi fece innamorare della musica.
Hai studiato poi con altri pianisti…
Ho trascorso un periodo interessante negli Stati Uniti sotto la guida di un allievo di Horowitz, Rudolf Firkusny, un uomo completamente mitteleuropeo. Quindi con la succitata Alice Kerzeradze-Pogorelich, proveniente dalla scuola di Liszt, che mi riformò. Fui uno dei suoi ultimi allievi. La sua scuola era basata non su stilemi inerziali né psicotecnici bensì coreografici: si memorizza il gesto come espressione di un ipotetico attacco di un direttore d’orchestra e ciò crea una danza, una coreografia in cui ogni dettaglio della partitura crea la tecnica e questo gesto tecnico quindi viene cristallizzato.
Quali sono stati i compositori che ami e hai amato di più?
Da ragazzino amavo Beethoven. Poi Chopin e Liszt, dopo i vent’anni i russi e dai trenta l’iperpianismo di Godowski e la musica metastrumentale di Busoni. Con quest’ultimo ho scoperto l’uomo italo-tedesco.
Parlaci del tuo rapporto con Roman Vlad.
La nostra amicizia è stata fruttuosa ed ha portato alla composizione di “Opus triplex”. Vlad volle scrivere un’opera monumentale in risposta alla fantasia contrappuntistica di Busoni. Scrisse per me altri pezzi pianistici e per il suo novantesimo compleanno mi dedicò il “Concerto italiano”.
Passando alla discografia, raccontaci della tua impresa “scarlattiana”.
Si tratta in assoluto della seconda registrazione più lunga di un’esecuzione integrale pianistica esistente, di circa quaranta ore di musica. Grazie a Badura Skoda, che a Vienna mi mise a disposizione una villa trasformata in studio di registrazione e due pianoforti Bösenforfer imperial, sono riuscito a realizzare questa impresa. I Cd uscirono per l’etichetta Music&Arts, con cui ho inciso 50 Cd, 35 dei quali con musiche di Scarlatti.
Hai suonato i tutti i continenti. Dove ti sei trovato più a casa?
Inutile negarlo: a Vienna, al Musikverein e al Konzerthaus. Queste due sale hanno un calore unico, sono speciali, leggendarie!
[Gregorio Bardini]