Lo scrittore sospeso tra fisica e filosofia
Intervista a Leonardo Colletti, docente al liceo Carducci e alla LUB
Una laurea, con dottorato, in fisica e una in filosofia. Docente della prima disciplina al liceo Carducci e di didattica della fisica alla Libera Università di Bolzano: Leonardo Colletti unisce nella sua personale e accademica ricerca questi due mondi apparentemente molto distanti, condensandoli nella sua produzione letteraria che conta ora due romanzi.
Incontriamo Leonardo Colletti per farci raccontare da lui la sua frequentazione di questi due mondi, la fisica e la filosofia.
Come nascono i suoi interessi per due discipline che sembrano così lontane?
Si tratta di pura curiosità. Il mondo della nostra esperienza è attraversato da una superficie di separazione tra un fuori, e cioè il mondo della materia e dell’energia, e un dentro, e cioè il mondo della nostra interiorità. Del primo si occupa la fisica, che è arrivata a mostrarci un ordine e una coerenza meravigliosi, mentre nel secondo esplode una domanda di senso da cui è impossibile sottrarsi, e di cui si occupa la filosofia. Una vera e propria separazione stagna è però impossibile, perché ciascuno di noi è una sorta di membrana semipermeabile tra i due mondi, e quindi al centro di una continua osmosi tra l’astratto invisibile interiore e il concreto tangibile esteriore.
D’altra parte, da Galileo in avanti la scienza si è allontanata dalle domande sul senso. Lo scienziato è costretto a occuparsi di dettagli su dettagli, e questo spesso finisce per allontanarlo dalla ricerca di un senso complessivo. Come diceva Max Planck, si guarda il singolo albero e ci si dimentica della foresta. E però la domanda di senso, in un modo o nell’altro, torna a farsi sentire, se non nella prassi scientifica, sul piano esistenziale dello scienziato. E su cosa questo possa significare si è concentrata la ricerca da cui è nato poi il mio romanzo pubblicato nel 2022.
È la sua una ricerca del lato filosofico della scienza o del lato scientifico della filosofia?
Decisamente la prima. Io mi sono chiesto e continuo a chiedermi se la scienza sia veramente solo uno sguardo quantificatore sul mondo esterno privo di un qualsivoglia riflesso filosofico o se non ci sia piuttosto qualcosa in essa che in qualche modo risuona con la ricerca di una risposta alla domanda di senso, o se sia almeno in grado di indirizzarla.
È facile pensarlo per la filosofia, ma anche la fisica è in grado di darci delle chiavi di lettura o fornirci “modelli virtuosi”?
Come detto, la scienza galileiana ha grossi meriti, però ci ha allontanati dall’esplorazione delle grandi domande. Lo si vede anche a scuola: gli alunni vivono la fisica come un contesto arido, in cui non trovano alcuna ispirazione. Non hanno tutti i torti, se la si presenta loro come un elenco di operazioni sconnesse da tutto ciò che è umano. Ma io sono convinto che presentata nel modo giusto, anche la fisica può parlare al cuore dell’uomo, offrirgli strumenti mentali che aiutano a dare senso alle esperienze di vita. Bisogna però saperla prendere con un po’ di fantasia, ricercandone le linee più generali. A uno studente può non interessare l’equazione che descrive la trasmissione di calore da una sorgente calda a una fredda, ma se gli racconto cos’è l’entropia dicendogli che il disordine è la tendenza spontanea dei processi naturali e che per fare ordine occorre investire sempre nuova energia, ecco che lui acquisisce uno strumento potentissimo per cogliere con una sola occhiata tanto lo stato della sua cameretta che il bicchiere che si frantuma che l’interrogazione andata male. La formula che gli serviva per risolvere problemi di fisica diventa una lampadina con cui illuminare di senso l’esperienza, un nuovo, potentissimo taglio interpretativo.
Troppo spesso ci si dimentica di questo valore culturale e formativo della fisica. Non si tratta infatti di insegnare a tutti come funziona una caldaia, ma di fare apprezzare immagini e concetti che hanno una grande potenzialità analogica e metaforica, che ci permettono cioè di arricchire il nostro linguaggio, di dare forma alla ricerca di senso.
Nel suo Quadri di un’esposizione l’arte diventa il terzo pilastro della sua narrazione. Come racconterebbe questo libro?
Si tratta di un lungo dialogo, in 33 tappe (32 nella prima edizione), tra Paolo, uno scienziato, e Francesca, un’umanista. I due visitano insieme un’esposizione di famosi dipinti. Le immagini diventano il simbolo in cui la visione dell’uno converge con la visione dell’altra. Vi si dimostra che l’immagine non è solo uno strumento di espressione di sentimenti e moti dell’animo umano, parallelamente alle lettere, alla filosofia e alla religione, ma anche un veicolo di astrazioni scientifiche. C’è poi una citazione che è un po’ una provocazione: Paolo e Francesca danteschi si innamorano condividendo una lettura classica, qui invece discorrendo di concetti scientifici.
Il testamento di Joseph Mariotti, pubblicato nel 2022, aggiunge la letteratura alle fonti che animano il testo. Protagonista è un insegnante, com’è lei, che riceve dai suoi alunni e da alcuni colleghi lo sprone ad intrecciare fisica e discipline umanistiche. Come docente di cosa è grato ai suoi studenti?
A scuola hai davanti a te il mondo che verrà. Anche solo guardandoti, gli studenti ti chiedono di dare loro qualcosa di veramente imprescindibile. E allora scatta la sfida a rendere interessante quello che stai dicendo, a togliere i tecnicismi per tirare fuori il messaggio essenziale di un concetto. Così parti con un esperimento che riguarda pentole e termometri e ti ritrovi con una metafora da riversare sul mondo. Leggere la sorpresa e la soddisfazione negli occhi degli studenti è ciò che rende unico il mestiere dell’insegnante.
[Mauro Sperandio]