La premiata ditta Delladio & Rossetto
Il 9 maggio presenteranno a Vipiteno il loro ultimo cd: Underwater Blues
Fosse un disco di Eric Clapton, dei Black Keys o di Thorbjørn Risager, si sentirebbe più e più volte girare nei pub che amano dare energia e qualità alla loro tappezzeria sonora; trattandosi invece di una produzione locale e per giunta di composizioni originali, quella via di diffusione si rivelerà forse più difficile.
Si tratta del nuovissimo ep in cd di Delladio & Rossetto Band Underwater Blues, una manciata di canzoni orientate sin dal titolo a un genere ben preciso, un blues rock che sa però spaziare tra i tanti ritmi e modi in cui storicamente si declina. I bolzanini Marco Delladio e Matteo Rossetto, chitarristi e autori affiatati, hanno presentato il loro lavoro, impreziosito dall’apporto dei maestri Federico Groff alla batteria e Flavio Zanon al basso, in anteprima a Monaco di Baviera ma questo mese lo faranno in patria nell’ambito dei Blue Days di Vipiteno il 9 maggio. La maturità dei due leader emerge chiara dall’equilibrio e dall’essenzialità dell’intreccio sonoro esibito, privo di tastiere e probabile frutto di un lungo lavoro di distillazione delle poliedriche esperienze accumulate in ambiti differenti dal blues, specie in Take me to the station, un chiaro omaggio al “chitarrismo magico” degli Stones e, nel testo, un possibile gioco con la loro No expectations. Delle reali aspettative di questa formazione ci parla invece direttamente Marco Delladio.
Marco, cosa ti ha portato in origine ad avvicinarti alla musica e a farne la tua passione?
Il merito è della mia famiglia. Mia madre era una pianista, mio padre aveva una discreta collezione di dischi che ha formato anche me, eravamo tre fratelli tutti musicisti sin dalla tenera età.
Con una prevalenza rock e blues?
Fino a un certo punto, basti pensare che per venticinque anni ho suonato gipsy con Manuel Randi.
Il quale ha dichiarato pubblicamente che tu sei la sua mano destra, un complimento non da poco…
Mi fa piacere, abbiamo lavorato tanto insieme anche all’estero e non con centinaia ma con migliaia di concerti alle spalle. Vera è comunque anche la mia passione per i generi citati e per il pop, ma ascolto a periodi anche tanta musica classica, ultimamente con una predilezione per Chopin, al punto che i cd dei Notturni li tengo in automobile.
Nel nuovo cd hai però optato per il blues…
Sì, sono cinque brani, quattro originali e una cover di blues (ndr.: che cela la penna dell’anglofona Sarah Agius, maltese già da tempo coinvolta nella supervisione dei testi in lingua cantati in modo convincente dallo stesso Delladio), un genere che ho sempre suonato ma che non eleggerei a mia musica principale.
Possiamo dire che tra le tue fonti d’ispirazione, cui hai dedicato un tributo qualche tempo fa, ci sia uno che in vita è riuscito a imporre la propria cifra stilistica in un genere ampiamente codificato, un certo J.J.?
Beh, J.J. Cale mi piace moltissimo, in primo luogo perché a livello compositivo i suoi brani sono delle piccole perle, di bellezza più unica che rara per melodie e arrangiamenti, poi proprio per il fatto di aver creato un suo sound ben definito che in ogni tipo di musica è la cosa più difficile da fare. Tra i chitarristi della musica moderna, quanti ce ne sono che puoi riconoscere con chiarezza, dicendo questo è Gilmour, questo è Clapton? Saranno sei o sette e lui è tra questi, prova ne sia che l’hanno copiato tutti, senza riuscirci…
E la sua voce? Quel sussurro era una carezza…
La dimostrazione che, come a livello strumentale d’altronde, una grande tecnica può dirti poco, mentre uno come J.J. Cale che non aveva certo la voce di Pavarotti, quanto a emozioni che sapeva evocare era davvero imbattibile e faceva le scarpe a tanti professionisti del canto più accreditati.
Anche stavolta il cd è in inglese: non ci sono davvero alternative per fare questa musica?
Ho sempre cantato in inglese perché suonavo quelle cose lì, è un po’ un’abitudine. Certo sarebbe più comodo farlo nella propria lingua e non è nemmeno escluso, dopo tre cd di composizioni originali in inglese, che io ne possa fare uno in italiano. L’importante quando registri qualcosa è che sia di materiale proprio e non di cover di cose altrui con cui giammai sprecherei nastro. Il progetto di fare un disco blues nasce su impulso di Matteo, anche per tentare di entrare in certi circuiti e canali di genere, siamo andati a registrarlo a Verona in uno studio bellissimo e in soli due giorni, il primo per suonare le basi in quartetto, il secondo per metterci le voci e la chitarra solista. Ha lo spirito che volevamo, un po’ grezzo, “da blues”.
Niente da invidiare come risultati, ma la scena locale che pratichi e conosci come la vedi?
È un po’ il cane che si morde la coda: le band sono orientate alle cover, ci sono tanti bellissimi tributi, ma perché i gestori dei locali che le ospitano e gli avventori stessi chiedono quelle. Manca un po’ nel pubblico la cultura di andare a sentire il concerto di qualcuno, cosa che all’estero invece si fa: così, a Monaco ad assistere alla presentazione di Underwater Blues c’erano 150 persone.
[Daniele Barina]