Viva il rock e il blues degli anni Settanta
Fait e Tornarolli raccontano gli Staxx, band dal ricco repertorio di cover
Formatasi una decina di anni fa tra Laives e Bolzano, la band degli Staxx sta lucidando il proprio repertorio di cover e definendo il calendario delle proprie esibizioni di stagione (2343ec78a04c6ea9d80806345d31fd78-gdprlock/The-Staxx-105143799549931), complice l’entusiasmo quasi giovanilistico dei due co-founder, Giorgio Fait e Giorgio Tornarolli, per l’inestinta galassia del blues e del rock anni Settanta.
Il bassista e il cantante hanno raccolto intorno a loro un manipolo di musicisti di diverse generazioni, Luca Garzena e Francesco Basciu alle chitarre, Marco Casarin alle tastiere e Fabio Dolzan alla batteria, ma quando lo spazio lo permette il nucleo base del gruppo non disdegna di avvalersi di una sezione fiati, di un armonicista e di background vocalist, aggiungendo rhythm al proprio blues.
Con Bob Dylan, Van Morrison, CSN&Y nella mente, finisce che passa la voglia di scrivere canzoni per l’inarrivabilità dei modelli: è per questo che vi dedicate “solo” a diffonderne il Verbo?
G.F.: Certo, quella degli eroi della scena di cinquant’anni fa è in definitiva la musica che ci piace suonare e su quella ci concentriamo, senza composizioni originali. La creatività comunque non manca e sta nella reinterpretazione dei classici della scena blues e rock, nel nostro caso assecondando il gusto con cui li riproponeva l’Inghilterra negli Ottanta, versioni compatte dei brani e senza dilungarsi troppo negli assoli com’è invece d’uso in America.
Curioso che il nome della band, seppur scritto un po’ diversamente, rimandi a un’epoca precedente, quella di Stewart e Axton e della mitica etichetta soul che fondarono a Memphis, la Stax Records...
G.F.: Ci piace e suoniamo anche quella musica, come d’altronde il r’n’b, ma la storia del nome è in effetti un’altra. Eravamo ospiti di una jam session in una valle qui vicina e durante la serata una frana bloccò la strada costringendoci a rimanere là. Siccome Dylan aveva scritto la canzone Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again e “stuck” (leggi stʌk) significa restare bloccato, da lì è saltato fuori il nome del gruppo.
Vi siete evoluti rispetto agli esordi o siete ancora bloccati?
G.F.: Siamo rimasti un classico gruppo da pub, non siamo una party band, non ci vendiamo all’apres ski o ad altri, non c’interessa essere una tribute band. Abbiamo un repertorio basato sui grandi pezzi del blues, un credo che ci ha accomunato nelle diverse esperienze musicali avute da ognuno in passato. In questo ambito, cerchiamo poi le canzoni e le tonalità che più si adattano allo stile vocale di Giorgio Tornarolli, fino ad averne una sessantina in repertorio.
All’inizio hai preso il basso perché non lo voleva suonare nessuno?
G.F.: No, sono sempre stato un cultore della musica, un collezionista di dischi, un dj nelle radio locali: di Radio Quarta Dimensione ho ancora la tessera di collaboratore ai programmi musicali, datata 1978. Solo dopo ho scelto di cimentarmi con il basso e, insieme a Loris Anesi, Mariano Keller e Franco Condè, si è formata la band denominata Fraiso.
G.T.: Mi risulta venga da un certo Friso, un ragazzo di Egna cui piaceva molto ci fosse un gruppo che iniziava la propria avventura nel blues...
Che però da tempo aveva ormai perso i connotati della denuncia, soppiantati da quelli puramente estetici di genere...
G.T.: Una tendenza che si è confermata alla distanza: oggi non troviamo quasi più nulla d’impegnato in musica, nemmeno nella canzone d’autore, con il malcontento ormai delegato a nuove tendenze, prima al rap poi alla trap, con l’elettronica e la digitalizzazione a facilitare le produzioni domestiche. Noi invece abbiamo ancora un’officina dove provare insieme dal vivo: gli stessi brani finiscono così per suonare ogni volta diversi dalla precedente.
Cosa ascoltate ultimamente? A chi si vuole avvicinare alla musica che consigli dareste?
G.F.: Dell’oggi sento poco, pur non essendo nostalgico del passato. Ascolto Christone Kingfish Ingram, Fantastic Negrito, Arcade Fire, Black Crows, Black Keys, Bob Weir, Calexico, John Primer, Walter Trout, dunque perlopiù bluesman. A un giovane musicista direi di fare più esperienza possibile suonando il proprio strumento, più che studiandolo in solitudine...
G.T.: Con troppa teoria c’è in effetti il rischio che tu “esca dal cuore”, ma studiare almeno le basi dello strumento o la musica non è affatto inutile perché ti evita oggi un altro pericolo connesso all’uso di nuove tecnologie, quale il non saper più fare domani quello che ti era riuscito oggi.
[Daniele Barina]