L’indiano e il bambino che imparò ad amare
L’ultimo libro di Francesco Comina: una fiaba destinata a lettori di ogni età
Giornalista e scrittore, impegnato nel progetto di comunicazione empatica Parlare, Francesco Comina ha recentemente dato alle stampe una fiaba che potremmo dire “d’incanto e impegno sociale” (e ha già pronto per le stampe un libro su Raimon Panikkar).
Il suo L’indiano e il bambino che imparò ad amare, pubblicato da Gabrielli Editori e illustrato dal pittore Giuliano Salvaterra, è una storia entusiasta, apparentemente semplice, ma di profonde implicazioni. Ne parliamo con l’autore.
A quale lettore ha pensato durante la scrittura de L’indiano e il bambino?
Ho pensato ai ragazzi di quell’età di mezzo fra la fanciullezza e l’età adulta, a quelli che abitualmente chiamiamo adolescenti. Un’età breve, un’età-ponte dove l’immediatezza della vita propria dei bambini si trova a dover fare i conti con la complessità della realtà, con il senso delle cose e con la vulnerabilità dei sentimenti. Ho iniziato a immaginare il racconto per ragazzi di dodici, tredici, quattordici anni. Poi, mano a mano che proseguivo nella storia, mi rendevo conto di trovarmi in una fiaba senza età, proprio nel filone della tradizione degli autori di fiaba, che hanno dimostrato come questo genere di letteratura non sia riconducibile solo all’occhio dei ragazzi, ma sia una letteratura tout court. Pensiamo al peso che ha avuto in Italia (e non solo) Gianni Rodari, di cui si celebrano quest’anno i cento anni dalla nascita e i quaranta dalla morte, o pensiamo all’autore che mi ha ispirato, che ho avuto l’onore di conoscere e a cui il libro è dedicato, ossia Luis Sepulveda.
Attraverso il racconto di fiaba si possono far passare messaggi importanti, con un linguaggio semplice. Di più: si può mettere sotto giudizio il mondo, con le sue storture e le sue iniquità, e immaginare un mondo rovesciato dove il bene trionfa sul male, la pace sulla guerra e la bellezza degli incontri, come in questo caso, sulla paura infarcita di pregiudizi e preconcetti.
Tra i monti dell’Alto Adige, un protagonista che viene dalla lontana Amazzonia. In questa “contaminazione” c’è il suo impegno per i diritti umani e la pace ma anche un legame al territorio?
Sì, proprio così. Questo racconto celebra l’idea che la contaminazione è il motore della storia. Da sempre. L’homo sapiens è migrato dall’Africa e si è distribuito in territori più favorevoli al suo sviluppo e poi in tutto il mondo aprendo l’avventura degli incroci e degli incontri e della contaminazione. L’ideologia dell’uomo puro, incontaminato è stata demolita dalla scienza e dalle scoperte sul Dna. In tutti i luoghi del mondo, perfino in un paesino alle pendici dello Sciliar, vive un’umanità che è frutto di contaminazioni. L’amore non conosce muri di separazione, non conosce blocchi di potere. Romeo non vuol sentir parlare dei muri per il suo amore con Giulietta: “Amore non teme ostacoli di pietra”. L’Alto Adige è poi una terra emblematica al riguardo: zona di confine, di frontiera, zona di mutua fecondazione fra gruppi linguistici (con tutti i problemi che conosciamo). Eppure è venuto il momento di uscire dalle strettoie di una questione di integrazione legata solo al rapporto fra italiani, tedeschi e ladini e fare i conti con le dinamiche di una convivialità delle differenze, misurabile sull’intero orizzonte della terra.
L’uomo dell’Amazzonia è chiamato dalla gente “l’indiano”: un’approssimazione, una semplificazione forse?
Le semplificazioni sono tipiche di una cultura della superficialità e dell’indifferenza. Nel racconto si percepisce molto bene come i più, nel paese dove è ambientata la storia, preferiscano adeguarsi ai luoghi comuni, alle frasi fatte, al mimetismo del pregiudizio. Le persone non sono mosse dalla curiosità, dalla volontà di sapere, dal gusto di conoscere. Il bambino protagonista, Matteo, pur con tutte le paure e le riserve decide che no, che non si può parlare (male) degli altri senza sapere nemmeno da dove vengono questi altri, senza conoscere i motivi della loro presenza fra noi, senza avere il minimo interesse a parlare e a confrontarsi con loro. E allora ecco che irrompe, in Matteo, la volontà di conoscere, di incontrare l’indiano dai lunghi capelli bianchi che incute così tanta paura ad un paese che non ha mai voluto nemmeno incrociare il suo sguardo. E la paura si trasforma in una potente energia che giorno dopo giorno abbatte tutti gli steccati dell’istinto securitario e si apre alla diversità.
Ad illustrare il racconto ci sono le illustrazioni di Giuliano Salvaterra. Quale contributo hanno portato alla storia?
Hanno arricchito e impreziosito il racconto al punto che, se mi sono deciso a pubblicare questo libro, il motivo forse principale sono stati i disegni che Giuliano Salvaterra ha voluto farmi avere dopo aver letto il testo. Salvaterra è un pittore visionario e ha un enorme talento, tanto che sono convinto che appartenga alla grande storia della pittura visionaria (Chagall ecc). Salvaterra ha fatto delle mostre bellissime come quella dedicata alle piazze e alla vie della città di Bolzano, oppure quella che riflette alcune immagini tratte dal Cantico dei Cantici o il viaggio lungo il fiume Adige. Quadri che meriterebbero ben altra attenzione.
[Mauro Sperandio]