La propaganda nazista durante le Opzioni
Mostra a Castel Tirolo, il curatore Obermair: “Materiali inquietanti e osceni”
La ricerca e la divulgazione storica ci permettono di creare un continuum tra presente e passato, offrendoci la possibilità di conoscere ed imparare per l’oggi e, se abbiamo l’umiltà, anche per il futuro. In questo solco si colloca “La grande Germania chiama!”, mostra dedicata alla propaganda all’epoca delle Opzioni, visitabile fino al 22 novembre nella suggestiva cornice di Castel Tirolo.
Della mostra e delle fortunate circostanze che l’hanno resa possibile parliamo con il professor Hannes Obermair, Senior Researcher presso l’Accademia europea di ricerca transdisciplinare Eurac Research di Bolzano e Fellow della Royal Historical Society di Londra, che la mostra ha curato.
A rendere possibile la mostra è stato un fortunato ritrovamento. Com’è avvenuto?
Subito dopo la conclusione della mostra “Miti delle dittature”, che ho potuto curare l’anno scorso sempre per il Museo provinciale di Castel Tirolo, la direzione del museo mi ha sottoposto alcuni bozzetti appena acquisiti di indubbia matrice nazista, che si sono subito rivelati di estremo interesse per una nuova prospettiva sulle Opzioni, ovvero il trasferimento in massa delle popolazioni di lingua non-italiana verso il cosiddetto Terzo Reich, pianificato dai due dittatori Mussolini e Hitler nel 1939/40. Il materiale proveniva dal lascito, mai visionato prima, del membro sudtirolese delle Waffen-SS Josef Dorfmann (1921-1944), attivo nella famigerata “Leibstandarte Adolf Hitler” e deceduto in seguito a ferite contratte sul fronte orientale.
Quali sono le premure e le esigenze che come storico ha dovuto soddisfare di fronte a del materiale tanto originale?
Innanzitutto si tratta di materiali alquanto inquietanti e alienanti, per non dire osceni. I disegni sono assolutamente espliciti e più unici che rari, evidenziando i quadri mentali pienamente etnocentrici e razzisti dell’ideologia völkisch, improntati al concetto di sangue e suolo e di dissolvimento individuale nel collettivo ‘razziale’ così caro alle dittature fasciste. L’approccio che ho seguito era di contestualizzare il materiale, descriverne i risvolti e le finalità, chiarirne la genesi e attribuirlo agli attori coinvolti, fra cui artisti locali come Heiner Gschwendt o Max Sparer. In più, la particolare configurazione degli artefatti in questione permette di capovolgere la consueta narrazione di eventi di cui i germanofoni (e ladini) sudtirolesi furono solamente oggetti passivi, mentre traspare con chiarezza il ruolo attivo che molti esponenti hanno avuto nel fare delle Opzioni un vero trionfo del lavaggio di cervello nazista.
Quali sono gli elementi grafici che ricorrono più frequentemente nei disegni ritrovati? Cosa ci raccontano?
In essi dominano oltre alla svastica nazionalsocialista, spesso raffigurata come sole dell’avvenire, le scritte “Großdeutschland ruft” e “Heim ins Reich”, sempre accompagnate dal punto esclamativo e intese come aggressivi comandi di una transumanza etnica collettiva. L’iconografia nazista prende inoltre corpo nel saluto tedesco, la mano fascisticamente alzata, di donne, uomini e pure bambini, vestiti in costumi tradizionali del Sudtirolo. Vi è poi spesso un elemento particolarmente contraddittorio ovvero il sottofondo del Catinaccio e dello Sciliar quale scenografia montanara che ci si accinge ad abbandonare, ma anche a preservare mentalmente. Ovviamente questa messinscena rappresenta tutta l’aporia, mai risolvibile, del pensiero etnocentrico.
Parallelo al percorso espositivo è l’intervento artistico di Riccardo Giacconi. Qual è la sua funzione?
Ho invitato l’artista marchigiano a commentare il materiale nazista frutto di interventi “artistici” anch’esso, proprio con una sorta di contro-estetica contemporanea. Si tratta di un approccio di guerriglia comunicativa che sovverte il materiale originale modificandone i codici. Esso è l’ideale complemento della prassi storiografica a me prediletta, cioè quella decostruttiva.
Pensando anche al suo lavoro di depotenziamento del monumento alla Vittoria, le chiedo: è possibile parlare di una “storiografia militante” che si mantenga imparziale? Quali gli scopi e i limiti di tale pratica?
È ovvio che il lavoro storiografico non è mai neutro, ma esso deve almeno tentare un’interpretazione il più possibile dimostrabile e plausibile. Bisogna sempre riflettere sul proprio Erkenntnisinteresse ovvero il profondo nesso fra saperi e coinvolgimento personale. Ma resta un compito epistemologico mai del tutto raggiungibile ed eternamente sfuggente. Pertanto ogni lavoro storiografico è provvisorio e rimane, in ultima istanza, precario e perfettibile.
[Mauro Sperandio]