Lassù a Capo Nord, dove finisce il mondo
La sfida con se stesso di Matteo Dondi, che ha attraversato 11 Paesi in solitaria
Matteo Dondi, bolzanino di trentanove anni, proprietario di una ditta di trasporti ecologici su “Cargo-bike”, con una passione ventennale per la bicicletta, si è messo in gioco in una delle gare più dure e più estreme al mondo: la North Cape 4000.
In bici, in solitaria, ha percorso 4.995 chilometri, passando per undici Paesi. Comprando la bicicletta da corsa solo sei mesi prima della gara, il suo obiettivo, come dilettante di categoria, era quello di uscire dalla propria comfort zone, arrivando almeno fino a Praga. Era quello il massimo che pensava di riuscire a ottenere. Ma anche lui, come accade per molti, non aveva fatto i conti con la forza d’animo e la determinazione, che cresce proprio quando veniamo messi a confronto con le avversità più dure.
Matteo, innanzitutto parlaci della gara.
La gara si chiama “North Cape 4000”, ho partecipato alla seconda edizione del 2018. Siamo partiti da Arco (Lago di Garda), il 28 luglio e dovevamo arrivare al traguardo entro il 31 agosto. La gara era composta da quattro gate (porte) in ognuna delle quali ci rilasciavano un timbro per poter accedere alla successiva. L’arrivo era Capo Nord in Norvegia, dove la terra finisce. Molti partecipanti preferirono affrontare la gara in gruppo. Alcuni, pensando strategicamente, piuttosto che caricarsi subito di peso superfluo, si erano spediti il necessario in punti strategici della gara, lungo il percorso. Io scelsi di partire con 30 kg di attrezzatura (tenda inclusa) e 5 kg di provviste, un’enormità. La mia è stata più un’avventura, una sfida con me stesso, non pretendevo di certo di battagliare con i migliori al mondo di categoria. Partivo pesante e da solo per scelta.
Quando hai deciso di partecipare a questa gara e per quale motivo?
Avevo trentasette anni, non ero più un ragazzo ma sentivo che non potevo ancora definirmi uomo. Provavo la necessità di fare un’esperienza che desse valore a quello che sono, alle mie capacità, alla necessità che avevo di rigenerarmi. Cercavo una sfida impossibile. Sono fatto così, devo vedere fin dove arrivo, la routine mi uccide. Di base sono curioso, ma pigro. Sentivo la necessità di un vivere atavico, la routine che vivevo normalmente aveva perso tutto il suo senso. Lessi una frase che diceva: “La tua vita comincia quando esci dalla tua zona di comfort”. Mai frase fu più vera.
Per quale motivo hai voluto fare tutto da solo?
Per me non contava vincere, non sarebbe nemmeno stato possibile. C’erano veri campioni tra i 130 atleti che hanno partecipato. Io prima di prendere parte a questa gara avevo sì alle spalle vent’anni di mountain bike (tra cui enduro, XC e bikepark) ma in questa gara si faceva tutt’altro. Alcune competenze che avevo acquisito in anni di uscite nei boschi mi sono servite, ma una gara di “ultra endurance” richiede altre doti. Dai miei risultati, essendo realista mi ero imposto di arrivare in gara almeno fino a Praga, in Repubblica Ceca. La North Cape 4000 non è soltanto una gara fisica, è anche molto psicologica. Ho portato il mio corpo allo stremo, in certe situazioni ho rischiato grosso, ma posso dire che quando il corpo stava per cedere, la mente più delle volte lo seguiva. è il cuore che ti porta avanti, soltanto il cuore.
E ce l’hai fatta?
Come detto credevo di riuscire ad arrivare solo fino a Praga, al primo gate, invece alla fine in trentadue giorni, tra alti e bassi, sono arrivato all’agognato traguardo finale: Capo Nord! Mi sono classificato 77°, ultimo tra quelli che ce l’hanno fatta. Siamo partiti in 130, gli altri (tra cui anche atleti di tutto rispetto) hanno gettato la spugna lungo il percorso. A quei ritmi, basta un’infiammazione, un’influenza pesante, una banale caduta e la tua avventura termina. Mesi e mesi di allenamento buttati via. La mia gara è stata in parte diversa, volevo vivere un’esperienza che potesse arricchirmi totalmente. Dato che c’ero, ho voluto fare 700 km in più dei canonici 4100-4300km di gara, ci tenevo a visitare i luoghi in cui transitavo, perchè è questo che al ritorno ti resta dentro.
Come ti sentivi durante la gara?
Avevo voglia di non tornare più. Ogni pedalata mi allontanava da ciò che conoscevo, avvicinandomi sempre più alla mia meta. Fino in Austria pedalavo di giorno, ma stavo scoppiando per via delle ustioni alle braccia, alle gambe e in faccia. Allora ho deciso di pedalare di notte, continuando a riposarmi di giorno. Ero stremato e il mio corpo lo dava a vedere. Appena arrivato a Praga, al primo gate, volevo abbandonare. Avevo i battiti del cuore troppo alti, anche a riposo, quindi sono rimasto fermo un giorno. Avrei potuto mollare, perché in fondo ciò che mi ero prestabilito l’avevo raggiunto. Fortunatamente sono un tipo cocciuto: “la resa non era un’opzione”. Come fare? Ricordai le parole di un mio buon amico, esperto alpinista: “Non prendere mai una decisione definitiva in un momento di massimo stress”. Ci ho dormito su, l’indomani ho stretto i denti e ho tenuto duro.
Qualche aneddoto particolare?
Nei pressi di Jyväskylä, in Finlandia, dovevo piantare la tenda perché avevo ripreso a gareggiare di giorno, ma c’era brutto tempo e non trovavo il posto adatto. Chiesi a una signora se potevo metterla nel suo giardino condominiale, lei di buon grado acconsentì, dopo aver fatto insieme un video in finlandese che giustificasse a chi me l’avesse chiesto il mio pernottamento in quel cortile. Mi sarebbe bastato mostrarlo. Il mattino seguente, ancora in dormiveglia, vidi un’altra signora avvicinarsi alla mia tenda a passo spedito. Ero certo che mi volesse cacciare, ero pronto a mostrarle il video. Arrivata a un metro da me mi sorrise, chiedendomi:“Preferisce un tè o un caffè per colazione?” Dalle persone avevo ancora molto da imparare. Quindi furono soltanto incontri piacevoli?
Non tutti. Ci sono stati momenti di pericolo: in alcune parti dell’est Europa, purtroppo c’è ancora molta povertà. La traccia di gara passava per l’ex cortina di ferro. Lì, la caduta del comunismo ha lasciato ancora molti strascichi. Ma dove mi esposi di più, fu involontariamente a nord della Lapponia, andando verso l’ultimo gate. Volevo spezzare in due la tappa e fare 160 km al giorno perché le condizioni erano proibitive, pioveva a dirotto con temporali molto forti. Dopo chilometri e chilometri di niente vidi un fuoco, una cascina e degli uomini che mi facevano cenni. Mi avvicinai senza immaginare che mi stavo cacciando in un brutto guaio. Tre energumeni con tanto di coltelli e fucili da caccia, ubriachi di alcol distillato da loro, prima mi invitarono, poi presi dai fumi dell’alcool mi afferrarono per le braccia, uno mi strinse con un braccio la testa come per sottomettermi, rivolgendosi a me con fare molto aggressivo e in una lingua a me incomprensibile. Per evitare il peggio, sono stato al gioco, afferrando anch’io le loro teste senza mostrare paura, dando vita a una singolare empatia alcolica, non violenta ma parecchio fisica. Successivamente mi offrirono una tazza piena di quella brodaglia, accettai di buon grado, bevendola tutta. In qualche modo mi accettarono. Mi diedi un pugno sul cuore, come a ringraziarli, inforcai la bici e me li lasciai fortunatamente alle spalle. Entrai finalmente a Rovaniemi, ultimo dei quattro gate all’alba. Infreddolito ma felice. Anche la capitale della Lapponia era presa, il paese di Babbo Natale mi regalava l’ultimo dei miei 4 timbri. Quello che mi ammetteva all’ultima sfida : “Nordkapp, sto arrivando!”
Cosa hai provato al traguardo?
Prima della partenza, uno dei due organizzatori mi disse: “Se dovessi farcela, al tuo ritorno non sarai più lo stesso di quando sei partito”. Come dargli torto. Credo che più che al sottoscritto, spetti a Thomas S. Eliot descrivere al meglio quest’emozione: “Non smetteremo mai di esplorare. E il fine di tutte queste esplorazioni sarà di giungere nel luogo da cui siamo partiti, per solo allora conoscerlo”.
[Matthias Graziani]