Leo Gullotta porta in Alto Adige lo scrivano
Intervista al noto attore siciliano protagonista del racconto di Melville
Nella spietata Wallstreet, in uno studio di avvocato dove governa una burocrazia insensata, Bartleby è stato assunto come copista. Impiegato diligente, d’un tratto decide di interrompere la sua acquiescenza opponendo soltanto una breve ma definitiva frase di diniego.
È questa, in poche parole, la trama di Bartleby lo scrivano, che Leo Gullotta porterà a Bolzano, Bressanone, Brunico, Vipiteno e Merano assieme alla compagnia dell’Arca Azzurra e per la regia di Emanuele gamba. Abbiamo incontrato il famoso attore siciliano.
Quale opinione ha del personaggio che porta in scena?
Ho un’alta considerazione di Bartleby, un personaggio che mi è molto vicino, un uomo che sceglie la resistenza non violenta per sovvertire l’ordine della società. Il racconto di Melville mi ha subito affascinato e la riduzione teatrale di Nicolini mi ha poi spinto a dare il massimo nei confronti di questo scrivano. Bartleby è un alieno che sta al di fuori di qualsiasi classificazione, oltre l’essere buono, cattivo, amabile, reo, povero. Poco dopo essere stato assunto in un ufficio, si trincera dietro la frase “avrei preferenza di no”, una sentenza che di epoca in epoca può assumere differenti significati e che anche in questo momento storico mostra la sua efficacia. Così facendo si pone al centro di una passività totale, opponendo una resistenza che diventa filosofia di vita. La sua scelta è molto precisa e dà luogo a una situazione kafkiana, che manderà all’aria il peso delle cose e della vita.
Un atteggiamento quasi urticante...
Quando gli spettatori scopriranno le ragioni di Bartleby, sarà troppo tardi. Il suo silenzio inspiegabile avrà ormai turbato gli animi di tutti e sarà riuscito a sovvertire la quiete della società, i colleghi del suo ufficio e un titolare accogliente e disponibile. Al pubblico non potrà non venire in mente l’infinita tolleranza di oggi opposta alle violenze verbali, le questioni politiche e il tran tran della cosa pubblica che non sa gestire l’esistenza dei cittadini. È evidente quanto il testo di Melville sia esemplare per noi che subiamo l’imperativo di correre, produrre, competere e rischiare l’incomunicabilità. Ciò è stato vero per tutto il ‘900 e continua ad esserlo anche oggi. In un primo momento, di fronte alla stranezza di Bartleby, gli spettatori sorrideranno sicuramente, ma poco a poco tutti vivranno emozioni condivise e, di scena in scena, la commozione provocata dalla presenza dei fantasmi di ognuno che il testo è in grado di evocare.
Lei crede di aver avuto sempre il coraggio di cui ha avuto bisogno?
Non credo si tratti di coraggio, ma di decisioni prese serenamente assecondando la persona per bene che credo di essere. Penso di aver visto le cose della vita con la luce naturale che l’esistenza ti dona, nulla di straordinario. Ho però coltivato l’ormai raro piacere dell’indignazione.
Crede che il teatro sia ancora in grado di richiamare l’attenzione della gente?
In questo momento cinema e teatro sono in grande doloranza, perché la politica non conosce la “macchina dello spettacolo”. Non solo siamo stati gli ultimi a rientrare al lavoro dopo due anni, abbiamo anche ricevuto pochissimo aiuto, come se il nostro fosse un settore minore. Il teatro è però comunità, emozione condivisa, vicinanza. I teatri devono rimanere aperti, ma troppe sono le chiusure che alimentano una gravissima crisi sociale, oltre che culturale.
Mi riferisco al tema dell’omosessualità. Pensa che l’argomento debba essere ancora soltanto sussurrato?
I giovani di oggi hanno passato la linea del silenzio, sono liberi e sostanzialmente tranquilli. Le fasi e i pensieri del passato hanno permesso loro ora di potersi dichiarare in maniera assolutamente disinvolta, anche se non mancano le eccezioni. Soltanto nel 2019, il mio compagno e io siamo convolati in un’unione civile, ma è da ben 43 anni che condividiamo la nostra vita. Perché ci è voluto tutto questo tempo? Due persone che si amano sono famiglia, non c’è nulla da aggiungere, ogni discussione in merito è deviante. Il problema è la politica che è vecchia.
Lo è anche il teatro italiano?
Il nostro teatro sa rinnovarsi, è in una fase di grandi esperimenti e ci sono realtà molto interessanti, soffre però della “arte di arrangiarsi” tipicamente italiana. La politica non se ne interessa seriamente, moltissimo è lasciato al caso. Rammarica pensare che tutto questo accada nel Paese culla di teatro, melodramma, lirica, letteratura, scrittura e pittura. Senza dimenticare la massiccia burocratizzazione che si è insinuata in ogni settore della vita.
Chi non dovrebbe venire a vedere il suo spettacolo?
Tutti dovrebbero venire, per farsi la loro idea, accettare o non accettare quanto portiamo in scena, fa parte del gioco. I teatri devono essere vissuti, offrirsi alla comunità, essere luogo in cui indignarsi, essere felici, sorridere, gridare assieme, perché solo assieme si può fare qualcosa. Da soli non si va da nessuna parte.
[M.S.]