Il suono che cura
Intervista a Lucia Rongioletti, laureata in canto lirico e musicoterapeuta
Lucia Rongioletti è laureata in canto lirico e diplomata in musicoterapia. La sua professione coniuga due aspetti che nella sua famiglia si sposano piuttosto bene, essendo i suoi tre fratelli musicisti e medici.
Pugliese di origine, vive ormai da qualche anno in Alto Adige dove, assieme al compagno che si chiama curiosamente Giuseppe Verdi, ha dato vita anche alla casa editrice Formamentis, unica altoatesina presente al Salone del Libro di Torino 2021. Incontriamo Rongioletti per parlare di “suono che cura” e di quanto – senza parole – la nostra società ci dice.
Musico-terapia, curare attraverso la musica. È questo l’oggetto del suo lavoro?
La musicoterapia si occupa del mondo del non verbale, la parte più ricca e complessa che si annida nell’inconscio, nell’accezione freudiana. La musicoterapia che io pratico nasce dal lavoro di Rolando O. Benenzon, psichiatra/musicista argentino che ha sostituito la comunicazione verbale con il suono, così da raggiungere due obiettivi: permettere alla parte inconscia di affiorare in modo non filtrato dal verbale e offrire la possibilità di comunicare il proprio stato d’animo, i disagi, le difficoltà e le inibizioni a chi non ha adeguati strumenti di comunicazione o è impedito da malattia o deficit cognitivi. Ad esempio le persone con sindrome autistica. Il musicoterapeuta è una sorta di “analista del non verbale”: si occupa anche di prossemica, contatto visivo, mimica facciale e movimento del corpo nello spazio. Oltre che di antropologia, visto che non si può ignorare il contesto in cui il paziente è cresciuto e vive.
Con quale disposizione si avvicina ai suoi pazienti?
Il non-verbale ci offre la possibilità di una comunicazione autentica, di un racconto reale di noi stessi, dei nostri fantasmi e dei nostri silenzi, perché questi potrebbero evocare la morte e l’abbandono. Il bravo musicoterapeuta deve sapere innanzitutto affrontare i propri “buchi neri” ed essere disposto ad annullarsi in modo vigile per accogliere l’altro. Anche esercitando il silenzio.
Per disporsi all’ascolto?
Certo, anche se questo è un dovere per tutti, nel momento in cui vogliamo dedicarci all’altro. Il musicoterapeuta non medicalizza nessuno, ma crea uno spazio simbolico analogico non verbale di condivisione autentica, in cui la parte sana del paziente è valorizzata e sfruttata per creare una nuova costruzione comunicativa. L’argomento ci avvicina alla questione delle disfunzioni nella comunicazione, tema che sto affrontando in un libro che sarà pubblicato da Formamentis nel 2022.
Come nascono queste disfunzioni?
Ogni madre che sa di aspettare un bambino avvia con esso una comunicazione implicita che necessita di tempo e attitudine all’ascolto dell’altro. Nella pancia della mamma il bambino è accolto e si trova in condizioni ottimali. A sua volta, la madre è inserita in un contesto umano culturale e antropologico e in un ambiente popolato di voci e suoni, che contribuiscono a formare l’identità sonora del futuro uomo. Il feto non comprende ovviamente il senso delle parole, ma coglie la prosodia, cioè come le parole sono pronunciate, che veicola la comunicazione emotivo-affettiva. Perché “tutto vada bene”, il parlare della mamma deve colorirsi di tutti i più bei colori, perché questo dialogo ha già tutto del profondo amore tra i due. La madre, inoltre, deve essere la più attenta ascoltatrice di ciò che succede nella sua pancia. Lo scopo della musicoterapia è di rifluidificare in momenti delicati della vita quella comunicazione primordiale e meravigliosa che sa rilanciarci di nuovo nell’universo, ma che per qualche motivo si è interrotta.
Lei si occupa di una dimensione ricca e implicita. Come vive l’esplicitezza volgare dei nostri tempi?
Ne sono angosciata. Troppi curano il proprio grottesco involucro e non badano a curare la propria interiorità. Nel mio lavoro la simbolizzazione ha una valenza terapeutica importantissima, perché va alla radice di ogni cosa.
Come “suona” l’Alto Adige e cosa le comunica?
In Alto Adige ho trovato un’eccezionale tradizione musicale di ambito sacro. Sono tantissime le formazioni di livello semi-professionale che, oltre a fare un apprezzabile lavoro artistico, coltivano socialità e un forte senso di appartenenza. Da musicoterapeuta mi sento di fare alla terra che mi ha accolto un augurio: sarebbe bello e sano che la gente si attivasse per creare più occasioni informali in cui ritrovarsi ed esprimersi con la musica. Al di là della correttezza formale, il canto è un’esperienza che aggrega e allena ad aprirsi all’altro con maggior slancio emotivo e maggiore entusiasmo.
C’è qualcosa che i nostri lettori possono fare per loro stessi?
La musica è composta da due elementi fondamentali: il ritmo e la melodia. Nei momenti di tristezza o melanconia è preferibile lavorare sul ritmo. Io consiglio di acquistare un tamburo per ritmare se stessi e parlare attraverso di esso. Per fare ciò è necessario ritagliarsi uno spazio personale, intimo. In queste condizioni si potrebbero liberare delle meravigliose energie sonore, e fantastici crescendo rossiniani, musicalmente parlando. Si possono anche creare delle playlist con brani che ci piacciono, ma con una cautela: la musica ha un grandissimo potere rievocativo, dobbiamo stare attenti a scegliere brani che ci riportino a momenti felici.
Cos’è il silenzio?
Uno spazio fertile, utile, in cui rincontrare se stessi. Il silenzio è un momento anche doloroso, ma che ci permette di ricostruirci. Il silenzio è un’opportunità grandiosa.
[Mauro Sperandio]