Slowtorch, la macchina si è guastata?
Nuovo album della band bolzanina che a Vipiteno suonerà con Phil Campbell
Fatta una data in Austria a maggio, passata poi in Pusteria per presentare la sua nuova creazione “The Machine has failed”, la band bolzanina degli Slowtorch sarà a Vipiteno il 15 luglio in occasione dei Biker’s Days dove suonerà con Phil Campbell, l’ultimo superstite dei Motörhead.
Musica “corposa”, rock con una vena vecchia alla Black Sabbath, una precisa risalenza all’epoca in cui hanno cominciato a dire che quelli facevano metal. Gli altri del gruppo - Fabio Sforza alla batteria, Karl Sandner al basso, Bruno Bassi alle chitarre - sono un’enciclopedia vivente del genere dai primordi a oggi, capaci però di ascoltare anche Death metal o altro. A tutti piace lo stoner, specie al cantante della band Matteo Meloni, una delle voci più convincenti della scena locale anche quando scende dal palco.
Matteo, com’è nato questo nuovo lavoro?
Il disco nasce a metà tra Covid e prima. Volevamo fare due EP per tenere alta l’attenzione visto che siamo una band indipendente e avevamo dieci pezzi. Proponi dal vivo prima una parte dei pezzi e poi suoni gli altri. Siamo andati in studio a metà gennaio 2020 a incidere i primi, abbiamo fatto un paio di sovraincisioni ai No Logo di Laives ed è successo il patatrac della pandemia. Il batterista che è anche fonico poteva continuare a lavorare ai remix e noi abbiamo inviato un po’ di mail in giro, fino a che ci ha risposto l’Electric Valley Records, un’etichetta sarda il cui boss ha una band di heavy psych sounds. Ci ha detto: io gli EP non li vendo più, non vendo i cd, faccio album in vinile, ne stampiamo 500 e ne comprate voi un po’ di copie…
Sarà l’occasione per sbarcare in Italia?
Non funziona così, anche l’etichetta è fuori dai giri. I festival più grossi cui partecipano le band di label come questa sono a Innsbruck o Londra. Il posto dove siamo piaciuti di più è l’Inghilterra, dove abbiamo la nostra fanbase. Pensa che con questo LP per la prima volta una webzine ha analizzato i nostri testi, un fatto che ci ha rincuorato perché il disco nelle nostre intenzioni contiene un messaggio forte.
Suprematisti, satanisti, english speaking: destroidi come sembra debba essere un metallaro che si rispetti?
C’è molto impegno, magari dall’altra parte politica (ndr.: ride)... La copertina del disco lo rivela. Ci sono i naufraghi con il battellino, alle spalle si scorge una fortezza distrutta e sotto c’è pure il kraken con i tentacoli. Sai com’è nel metal e dintorni, una divinità o un mostro saltano sempre fuori. In realtà la canzone Kraken che appare nel disco è però dedicata all’ attraversamento del Mediterraneo da parte dei migranti, è un pezzo sulla fuga quando non hai più scampo. È ispirato a The Ghost of Tom Joad, più che a Springsteen proprio a Furore di John Steinbeck, al “no job, no home, no peace, no rest” di cui è intriso. Uno dei gruppi cui ci ispiriamo maggiormente, i Rage Against The Machine, hanno tra l’altro fatto una cover della canzone del Boss che risulta molto meno romanzata della sua. Bruno Bassi, il nostro chitarrista, è trilingue e dunque i testi originali che scrivo in inglese ho modo di farli controllare a lui che legge e pensa in quella lingua, oltre ad aver vissuto in Scozia. Scrive anche lui stesso dei pezzi per una musica del gruppo che definirei “a togliere”. Parte dal riff, ognuno suona in modo semplice e la forza è proprio quella, pur in un genere che è tutto cappotti e borchie. In Inghilterra ci vanno al lavoro vestiti così, ci trovi i cinquantenni...
Cosa vi piace ascoltare?
I Kyuss, poi abbiamo avuto la fortuna di suonare con uno dei padri del Desert rock, Mario Lalli, già con gli Yawning Man (ndr.: ora con The Rubber Snake Charmers). Io ti dico il mio disco preferito di adesso, non facciamolo sapere tanto in giro, è l’ultimo di Marracash: al di là di qualche tamarrata rapper, è ipernarrativo.
I Måneskin no? Cosa diresti a un rookie che vuole vivere di musica?
Il giudizio sui Måneskin non è negativo, hai vent’anni e suonavi in strada, hai scelto di imbarcarti nella cosa. Facile criticarli stando seduti sul divano, quelli sono sempre fuori casa. Loro lì ci sono, non fanno i bibliotecari come me... Dicono che sono banali: prima mi scrivi strofa e ritornello e strofa, poi ne riparliamo. Sono ormai un fenomeno planetario, hanno aperto gli Stones. A un giovane direi di provarci, di montare su un furgone e dare seguito alla passione. X-Factor per i Måneskin è infatti venuto solo dopo anni di piazze col cappello: il culo te lo devi fare, devi imparare come si suona insieme, come si vive insieme, come si dorme sui pavimenti dei pub, tutte cose che bisogna sperimentare. Magari portandosi un demo ben inciso se si fanno cose proprie.
Non c’è ombra d’italiano nel disco e nessun cedimento ritmico...
Non ci viene il “lentone”, abbiamo una cosa simile ma è comunque cadenzata. Questo è ormai il terzo disco, sul primo io non c’ero perché cantava Peter Tomasi: è vero che per cantare potrebbe anche andare l’italiano, ma a scrivere come si fa? Non sta nelle battute. Però prima di entrare in una band rodata come la nostra cantavo effettivamente in italiano. Mi sentirei più sincero a riprovarci, se facessi magari un altro genere...
In quest’era ipertecnologica e digitale, in che cosa avrebbe fallito la macchina?
Il bassista e il chitarrista hanno un pedale normale/distorto, io ho un normale megafono per cambiare un po’ la voce, il batterista ha l’assetto “Bonzo Bonham”, ci sono gli ampli Marshall, incidiamo su nastro e stampiamo in vinile. Lo studio scelto era anche un’occasione per andare via da Bolzano, a Verona per tre giorni solo noi e il tecnico dei Sotto il Mare Recording Studios, dove abbiamo suonato dal vivo, seppur in ambienti separati. Meno digitali e più chiari di così...
[Daniele Barina]