Nella Terra del Fuoco in cerca del padre
Andrea Rossi chiude la trilogia dedicata al tema della migrazione
Dopo una lunga pausa editoriale – per apprezzabile scrupolo, in quanto assessore comunale alla Cultura di Merano – Andrea Rossi torna alle stampe con un romanzo che chiude una trilogia dedicata al tema della migrazione e alla figura del padre.
Il suo romanzo La casa alla fine del mondo (Edizioni alphabeta Verlag, 2021) è ambientato ad Ushuaia, dove tra il ‘48 e il ‘49 giunse dall’Italia un numeroso contingente di lavoratori che, assieme alle loro famiglie, furono incaricati di dare nuova vita a questo sperduto centro nella remota e gelida Terra del Fuoco. Un lungo dialogo tra padre e figlio, ricco di digressioni e intrecci di vite, conduce il lettore al limitare tra giorno e notte, giustizia ed ingiustizia, libertà di forgiare il proprio destino e consapevolezza dei vincoli che sempre sussistono.
Incontriamo Rossi in occasione della prima presentazione del suo libro, avvenuta lo scorso 14 gennaio nella Biblioteca civica di Merano.
Com’è venuto a conoscenza della storia che ha ispirato il suo romanzo?
In modo casuale, guardando alla televisione un documentario sui discendenti degli immigrati che a metà ‘900 arrivarono nella Terra del Fuoco a Ushuaia, sulle famiglie originate da quei coraggiosi che ad Ushuaia sono rimaste. Un’immagine in particolare ha catturato la mia intenzione: il pannello interno della porta di una casa moderna e lussuosa, che era rimasto lo stesso di quando, negli anni ‘50, l’abitazione era una baracca che ospitava dei migranti.
La memoria di una storia condensata in un oggetto poco più che banale.
Cosa l’ha incuriosita di quella gente partita per far fortuna?
Sono sempre stato affascinato dalle persone che accettano il loro destino in maniera naturale: “Non posso trovare lavoro e futuro nel mio Paese? Senza chiedermi se è giusto o sbagliato, lascio tutto e parto per l’altro capo del mondo a fare quello che va fatto”. Nella nostra società questo senso dell’accettazione dignitosa e attiva del proprio destino si è ormai un po’ perso. Per questo mi affascina e attira il coraggio dei migranti.
Lei è un uomo di lettere, ma anche un grande appassionato di cinema e fotografia. La gestazione del suo libro è avvenuta per parole o immagini?
Sicuramente più per immagini. La cellula originale del romanzo è stato anche un esercizio svolto durante un corso di scrittura che aveva come obiettivo la descrizione in chiave evocativa di un oggetto. L’oggetto in questione è l’uniforme blu e oro che i lettori troveranno al centro di alcuni degli eventi narrati.
Nella sua attività professionale e politica ha sempre mostrato rigore e sobrietà. Il Rossi scrittore ha pari contegno o si concede slanci di furore creativo?
Mi concedo degli eccessi controllati. La scrittura ha un carattere liberatorio e mi dà la possibilità di mettermi nei panni di qualcuno che non sono, di vivere in un tempo che non è il mio e di comunicare sensazioni che non riuscirei a descrivere in maniera così precisa con la parola detta. Fuori dubbio è che queste emozioni, per essere percepite dal lettore, vanno strutturate.
All’interno dei confini italiani e in condizioni più agiate, anche la sua famiglia ha vissuto il fenomeno della migrazione. Ha trovato delle affinità tra la sua storia e quella del romanzo?
Questo romanzo è il terzo di una trilogia che ha al suo centro la figura del padre e il tema della migrazione; il primo è ambientato a Sinigo e il secondo a Lasa. Se oggi anche le donne sono protagoniste dei flussi che portano a spostarsi nel mondo, un tempo la migrazione era un fenomeno quasi esclusivamente maschile. Come ad Ushuaia arrivarono prima gli uomini e un anno dopo le donne, così mio padre ci precedette in Alto Adige per verificare che le condizioni fossero favorevoli al trasferimento di tutta la famiglia. In entrambi i casi la figura dell’uomo che prende per mano il suo destino è senz’altro centrale.
Nasciamo figli e l’età, almeno un po’, ci “genitorizza” tutti. C’è Andrea in uno dei due protagonisti?
Mi sono visto nel bisogno di quel padre di confessare: “Ho scelto un destino, l’ho vissuto fino in fondo e però ho costretto pure te a farne parte portandoti in questa terra sperduta. Tu non hai potuto scegliere, io sì”. Allo stesso modo ho sentito mio il suo desiderio di sdebitarsi mettendo a parte il figlio di un segreto importante, e lasciandogli la possibilità finalmente di scegliere se restare o partire.
C’è, tra tutti, un personaggio che predilige?
Direi Striaco, che è refrattario a qualsiasi imposizione e vincolo. Molto addentro ai fatti della vita, rimane sempre profondamente libero e capace di prendere su di sé la responsabilità delle proprie azioni.
Dovesse fotografare le scene del suo romanzo, utilizzerebbe una pellicola a colori o in bianco e nero?
Credo in bianco e nero. Non sono mai stato nella Terra del Fuoco, ma le condizioni atmosferiche, le vicende narrate e alcuni aspetti psicologici dei personaggi hanno grandi analogie. Dalla plumbea cappa del cielo spunta di tanto in tanto un luminoso raggio di sole. Nella storia, il bene e il male si alternano con contrasti di uguale intensità.
[Mauro Sperandio]